Luis Silvio Danuello non era scarso, era solo fuori ruolo… Forse

La stagione calcistica 1980/1981, per il calcio italiano, è stata importante per almeno due motivi: iniziarono gli anni Ottanta, la decade che porterà la nostra Serie A a diventare il campionato più bello del Mondo; dopo quattordici anni, le squadre di massima serie avrebbero potuto tesserare i primi giocatori stranieri.

Negli anni Ottanta, la Serie A divenne teatro di partite bellissime grazie al fatto che nel Belpaese non solo sbocciò una nidiata di talenti che renderà grande il nostro calcio ma grazie a stadi pieni e al fatto che arrivarono da noi a giocare molti giocatori stranieri. Alcuni hanno scritto da noi pagine gloriose di calcio, altri no.

Per quattordici stagioni in Italia non poterono approdare giocatori stranieri. Motivo? Dopo la debacle mondiale ad Inghilterra 1966 contro i carneadi della Corea del Nord, la Federcalcio vietò a tutte le squadre (fino a data da destinarsi) di tesserare giocatori stranieri, colpevoli del fatto di togliere spazio ai giocatori nostrani.

La stagione 1980/1981 fu quella successiva alla scoperta del “totonero” e di un sistema di scommesse clandestine che aveva portato addirittura la polizia negli stadi ad arrestare alcuni calciatori, farli squalificare (tra i tanti Albertosi, Paolo Rossi, Pino Wilson e Bruno Giordano) e a retrocedere o penalizzare fortemente la stagione successiva le squadre coinvolte (Milan e Lazio retrocesse in Serie B; Avellino, Perugia e Bologna partirono con cinque punti di penalizzazione).

Ecco arrivare la nuova stagione con la novità: le sedici squadre dell’allora Serie A poterono tesserare un solo giocatore straniero, di qualsiasi nazione. A ripensarci oggi questa cosa fa sorridere, visto che molte rose di squadre di Serie A hanno pochi giocatori italiani e tanti stranieri. E’ la “legge Bosman”, bellezza, il regolamento che ha rivoluzionato in meglio (o in peggio, dipende dai punti di vista) il calcio. Ma il 1995 era davvero lontano per i tempi di allora.

La stagione 1980/81 vide l’Inter con il tricolore sul petto a rappresentare il nostro calcio in Coppa dei Campioni, la Roma in Coppa delle Coppe avendo vinto la Coppa Italia, Juventus e Torino a giocare in Coppa Uefa mentre dalla Serie B furono promosse Como, Brescia e, per la prima volta, la Pistoiese. La squadra toscana, famosa per la sua maglia arancione, era al debutto in massima serie e solo sei stagioni prima militava in Serie D: un miracolo targato Marcello Melani, il suo presidente.

Quella stagione in Serie A arrivarono undici giocatori stranieri: solo Ascoli, Como, Brescia, Cagliari Catanzaro decisero di puntare sul made in Italy.

Arrivarono brasiliani, argentini, austriaci, irlandesi, olandesi e tedeschi spinti dalla frenesia di molti presidenti di accaparrarsi il giocatore straniero che avrebbe potuto far svoltare la stagione alla propria squadra.

Anche la piccola Pistoiese non fu da meno e per affrontare la sua prima storica stagione in Serie A con le grandi del nostro calcio tesserò il suo primo giocatore straniero. Arrivava dal Brasile e si chiamava Luis Silvio Danuello. Il Brasile era rappresentato in quella stagione di Serie A da altri tre brasiliani: Juary, Enéas e Falcão tesserati per Avellino, Bologna e Roma.

Come arrivò Danuello in Italia? Semplice: l’allora vice-allenatore della Pistoiese, Giuseppe Malavasi, fu incaricato da Melani di andare in Brasile a visionare dei giocatori e portare a casa il migliore. Malavasi doveva andare a visionare tale Palinho del Palmeiras, ma gli fu detto che a Ponte Petra, nello Stato di San Paolo, c’era un ragazzo che era davvero, davvero forte. Il vice di Lido Vieri vide l’amichevole tra il Ponte Preta ed il Comercial (due misconosciute, a noi, squadre di Campinas e Ribeirão Preto) e questo giocatore segnò una doppietta facendo vedere numeri…brasiliani.

Malavasi tornò in Italia, parlò con Melani e Vieri, il presidente si convinse e fece arrivare una proposta di acquisto al Ponte Preta: per una cifra intorno ai 170 milioni di lire di allora (oggi poco più di 420mila euro), il talentuoso (ma sconosciuto) attaccante Luis Silvio Danuello, classe 1960, partì dalla sua Júlio Mesquita e approdò a Pistoia. Avrebbe giocato in squadra con Marcello Lippi, Mario Frustalupi, Andrea Agostinelli e capitan Sergio Borgo.

Danuello si presentò con le stimmate del predestinato grazie anche alla vittoria del premio di miglior rivelazione del Brasile e del campionato giovanile brasiliano (la “Taça San Paolo”) vinto con il Marília l’anno prima. Subito intervistato appena arrivato in Italia, gli venne chiesto quale fosse il suo ruolo in campo visto che nessuno sapeva chi fosse. Lui rispose dicendo che era una “ponta”. “Ponta” in portoghese equivale, calcisticamente, all’italiano “ala”. Ergo, Luis Silvio Danuello avrebbe giocato sulla fascia destra come centrocampista, con il compito specifico di crossare verso l’area o entrare in area e cercare l’ultimo passaggio per il compagno. Quindi un’ala non può fare l’attaccante, la “ponta” non può fare l’“atacante”. Per vari motivi, come ad esempio la stazza fisica. E Luis Silvio Danuello si trovò a fare l’attaccante. Del resto, se cambia una vocale a “ponta”, diventa “punta”. Facile no?

Ed infatti nelle prime uscite estive della squadra toscana si notò qualcosa che non andava in Danuello: come faceva un calciatore alto 162 centimetri a fare la “punta”?. Molti avranno pensato che fosse un problema di ambientamento e di nuovi schemi tattici.

Il giocatore brasiliano debuttò in campionato a Torino contro il Toro il 14 settembre 1980 e dopo pochissime partite i dubbi diventarono certezze: Luis Silvio Danuello era un flop. Non era capace di giocare a calcio, non solo per il ruolo sbagliato in campo, ma anche per il fatto che sembrava tutto fuorché un giocatore non sembrando avere confidenza neanche con i fondamentali.

Che Malavasi avesse preso un abbaglio? Certamente, ma perché mister Lido Vieri, non provò a cambiargli ruolo? Mistero. Danuello, inoltre, era in una città dove nessuno parlava portoghese, era inviso a tutti, era senza fiducia in sé stesso e molto triste per colpa della saudade. Dopo sei partite passò dal campo alla panchina e poi alla tribuna.

La dirigenza della Pistoiese corse ai ripari tesserando il più esperto (ed italiano) Vito Chimenti. La squadra a fine stagione retrocesse per via del grosso divario tecnico (e di punti raccolti) con le rivali per la lotta salvezza e da allora la squadra orange non giocò mai più in Serie A.

Fu una delusione per tutti Luis Silvio, soprattutto per la dirigenza che aveva investito diversi milioni per un giocatore che non valeva nulla. Ma oltre al danno, la beffa: a fine stagione, Danuello tornò nella sede della Pistoiese a reclamare gli stipendi mensili non incassati e a chiedere di giocare ancora. Melani provò a cedere il giocatore, ma il suo tesserato non aveva per nulla mercato e poi, visto il suo comportamento poco professionale avuto durante la stagione, lo cacciò via, non dandogli un soldo ed una seconda chance.

Tornato in Brasile, Danuello giocò ancora con Internacional di Porto Alegre, Ponte Preta, Nautico e San José, una formazione del campionato di San Paolo. Disse addio al calcio nel 1987, a soli 27 anni. Dall’estate 1981, Luis Silvio non è più tornato in Italia ma ancora oggi il suo nome è una leggenda, un cult. Motivo? E’ l’emblema del “bidone”, dello scarso, del sopravvalutato.

Il nome “Luis Silvio Danuello” e “Pistoiese” riecheggiano nelle menti dei tifosi rivedendo la storia della Longobarda di Oronzò Canà, protagonista del film del 1984 “L’allenatore nel pallone”, dove Canà, neo allenatore della squadra neopromossa, partì alla volta del Brasile per tesserare il miglior giocatore possibile e, dopo aver avuto una fregatura da due improvvisati procuratori calcistici, eccolo innamorarsi del giovane e sconosciuto brasiliano Aristoteles. Nel film, Aristoteles, dopo un periodo di saudade, divenne decisivo e salvò la Longobarda dalla retrocessione, mentre nella vita reale a Luis Silvio andò molto male, perché a fine campionato lui era già da tempo in Brasile e non aveva la tecnica di Urs Althaus, l’interprete del numero 9 della simpatica squadra (si pensa) lombarda. Un attore migliore di un calciatore, quindi.

Ovviamente la trama della pellicola è romanzata, ma i protagonisti ricalcano presidenti ed osservatori un po’ “disattenti” negli acquisti e giocatori che se non avessero giocato in quelle squadre nessuno avrebbe dato loro una possibilità.

Sul conto di Danuello sono girate tante voci e tante iperboli: gelataio nei pressi dello stadio, taxista, barista, attore di film per adulti. Si disse che non fosse neanche un calciatore professionista e che in Brasile facesse altro. Come si sostenne, fu una messinscena la partita cui assistette Malavasi per tirare il bidone (economico) alle tasche della Pistoiese e far apparire il giocatore un novello Zico.

Poi quattordici anni fa la notizia: Luis Silvio Danuello abita ancora Júlio Mesquita, ha due figli (la prima nata in Italia) e gestisce un’azienda che produce ricambi industriali. Azienda aperta con i soldi ricavati giocando a calcio, perché il presunto asso che non era una “punta” ma una “ponta” ha giocato ancora sei stagioni e ancora oggi ha un risentimento verso tutti coloro che lo hanno definito “brocco” perché lui ha sempre giocato a calcio ed era un vero calciatore.

Cosa rimane di lui, oggi? Nulla, se non anche il ricordo di un murales con scritto “Luis Silvio c’è”, a ricordare che nei pressi dell’odierno stadio “Melani” ha giocato il peggior giocatore della storia del nostro calcio, che è realmente esistito e non è una diceria, visto che di lui ci sono zero filmati e qualche immagine dei tempi toscani, ovvero di quaranta anni fa.

La domande sorge spontanea: e se lo avessero spostato fin da subito sulla fascia e non come prima punta? Con i se e con i ma non si gioca a calcio, ma spesso tanti se lo sono chiesti. Fatto sta che oggi è ancora un’icona e capostipite dei “brocchi” giunti a giocare nel nostro calcio. Ah, a chi interessasse, Luis Silvio Danuello è sui social.

Articolo a cura di Simone Balocco

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