Scrive il Corriere dello Sport, l’amore nei confronti del padre si mischia all’ammirazione per l’uomo e alla stima per il ct che ci ha fatto vincere il Mondiale del 1982. Parlare con Cinzia Bearzot evitando di commuoversi è difficile, soprattutto adesso, a una manciata di ore dal quarantesimo anniversario dell’impresa al Bernabeu. «Se fosse ancora qui – ha raccontato ieri seduta sul divano di casa sua -, a mio papà avrebbe fatto piacere constatare quanto la gente ami ancora lui e i suoi ragazzi. Abbiamo vinto il Mondiale nel 2006, ma intorno al trionfo della squadra dell’ 82 c’è una sorta di mito, un qualcosa di difficile da pareggiare e da spiegare».
Se non ci riesce lei, professoressa universitaria di Storia Antica alla Cattolica…
«Gli studi classici, che ho intrapreso perché mio padre era stato un ottimo studente al liceo classico e ha acceso in me la passione per certi autori, non mi aiutano. Sono sincera: non credevo che l’Italia potesse vincere quella Coppa del Mondo».
Perché?
«Mi ricordo il clima, l’ansia e la preoccupazione che c’erano prima di volare in Spagna: le critiche della stampa per alcune scelte di mio padre, i risultati deludenti delle amichevoli e poi delle gare del girone. Non c’erano le condizioni per andare lontani».
E invece…
«Invece pian piano quella spedizione ha assunto un tono epico perché sono capitate cose che sembravano incredibili e assurde. Si è iniziato a credere al sogno e la paura è sparita».
A lei quando è successo?
«Dopo “la partita” ovvero il 3-2 sul Brasile. Da quel momento in poi ho capito che ce l’avremmo fatta, ma vi assicuro che in precedenza restare in Italia e leggere i giornali non era affatto piacevole per me che ero la figlia di Bearzot. Sa come li chiamavano gli azzurri? L’armata Brancazot. Intollerabile. Io mi arrabbiavo parecchio perché la critica preventiva e prevenuta non mi è mai piaciuta. Sembrava che tifassero tutti contro, che aspettassero di processare il ct e la squadra. Una gogna mediatica come quella era assurda e angosciante».
Suo padre come lo sentiva al telefono? Calmo o preoccupato?
«Mi ero già sposata e non vivevo più con i miei genitori. Papà parlava soprattutto con la mamma, ma lui non si è mai scomposto o fatto influenzare. Era una persona coerente, che andava avanti per la sua strada, mettendo il gruppo davanti a tutto».
Anche per lui però non sarà stato facile: le “bordate” per le esclusioni di Beccalossi e Pruzzo, la fiducia incondizionata a Paolo Rossi e al gruppo della Juventus…
«Vi fermo subito. Su Paolo, che era reduce dalla squalifica per il calcio scommesse, non ha mai avuto un dubbio: ha sempre creduto nella sua innocenza ed era sicuro che in campo non lo avrebbe tradito. E’ stato bravo ad aspettarlo quando non segnava».
Al Sarrìa i tre gol di Pablito al Brasile e la cavalcata dell’Italia fino al Bernabeu…
«Il Brasile sembrava una squadra di mostri, ma la vittoria sull’Argentina di Maradona aveva cambiato la storia e aveva fatto capire che niente era impossibile».
Perché lei e sua madre non siete andate a Madrid alla finale?
«Papà non amava che la famiglia gli andasse dietro sul lavoro, perché non voleva che avessimo un’esposizione mediatica. Abbiamo sempre rispettato il suo desiderio, tifando da casa».
E quando è tornato?
«Sono andata a prenderlo all’aeroporto e lui era lo stesso di quando era partito: un tipo molto sobrio, anche nella soddisfazione della vittoria. I risultati avevano dato ragione alle sue scelte».
Cosa le ha raccontato di quell’impresa tra le mura domestiche?
«A casa non aveva molta voglia di parlare di calcio, ma ha sempre sottolineato che quel successo era merito di tutti, dai ragazzi, allo staff tecnico, passando per il dottor Vecchiet, i massaggiatori e i dirigenti federali. Ognuno aveva dato il suo contributo, anche chi non era mai sceso in campo come Selvaggi».
Suo padre ha mai… buttato giù dal carro qualche critico che, dopo la finale, aveva provato a salire a bordo?
«Sì. Con qualcuno non ha più riallacciato i rapporti. Certe ferite erano troppo profonde».
E non ha mai smesso di fumare la “mitica” pipa.
«In verità lui fumava soprattutto sigarette e sigari. La pipa era stato un tentativo vano per fumare meno…».
Quando rivede le immagini della partita a carte sull’aereo di ritorno tra suo papà, Pertini, Zoff e Causio si commuove?
«Un po’, perché è un’immagine splendida».
Le ha insegnato lui a giocare a carte?
«Sì. Da ragazza giocavo, ora al massimo… una Scala Quaranta. Lui era bravo con le carte, ma era incredibile anche a suonare. Lo faceva ad orecchio, senza spartito. Aveva un talento pazzesco».
Chiudiamo con il rapporto tra Bearzot e Pertini.
«Ridendo diceva che il presidente accusava lui e Causio di barare in quella partita, ma era simpatico e gli voleva bene. Pertini in quella foto aveva il volto della felicità: il Paese veniva dagli anni di piombo e l’impresa della Nazionale lo ha riunito. Ecco perché a distanza di 40 anni tutti la celebrano: è un modo per ringraziare coloro che hanno vinto… più di un Mondiale».
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