Nel 1995 l’Unione europea passò a quindici Stati membri ed entrarono in vigore gli accordi di Schengen, nella ex Jugoslavia ci fu il massacro di Srebrenica, nacque Ebay ed uscì “Made in Heaven”, album postumo dei Queen. Nel calcio, entrò in vigore la “legge Bosman” ed in Italia divennero ufficiali le maglie personalizzate dei calciatori dove ogni atleta aveva per tutta la stagione un numero fisso ed il suo cognome sulle spalle.
Il 1995 è stato anche l’anno in cui, dopo ventisette anni, un Moratti diventava presidente dell’Inter: Angelo Moratti aveva lasciato la Beneamata nel 1968 dopo averla portata due volte consecutive sul tetto d’Europa e del Mondo e ora il timone del club del biscione era passato al figlio secondogenito Massimo, allora 50enne.
Per i tifosi interisti, un ritorno al passato con la speranza di vincere ancora qualcosa di importante: tra l’addio di Moratti padre e l’arrivo di Moratti figlio, l’Inter aveva vinto, in ventisette anni, solo tre scudetti, due Coppe Italia, una Supercoppa italiana e due Coppe Uefa. Lo scudetto mancava da sette stagioni ed era ora che la squadra tornasse a vincere il tricolore e tornare competitiva in Europa.
Massimo Moratti, petroliere come il padre, rimase in carica sedici stagioni vincendo tanto, portando la squadra, come il padre, sul tetto d’Italia, d’Europa e del Mondo.
Ma fino a quel periodo, gli anni successivi furono molto sparuti, la rabbia tanta nel vedere vincere le altre squadre anche a causa (ma non solo) di alcuni acquisti discutibili: perché se Massimo Moratti aveva comprato gente dal talento immenso (da Ronaldo “il fenomeno” a Baggio, da Zamorano a Djorkaeff, da Vieri agli eroi del triplete), alcune volte è incappato in (tanti) errori colossali che sono costati davvero tanti miliardi al suo portafoglio.
Moratti jr voleva essere (calcisticamente) come il padre e subito dopo un campionato che vide i nerazzurri chiudere al settimo posto, voleva presentarsi in grande stile e per fare questo aveva acquistato dagli argentini dell’Independiente de Avellaneda quello che allora era considerato come il più talentuoso argentino del tempo. Questo ragazzo, 21 anni, si presentava con le stimmate del predestinato, aveva vinto da protagonista con la maglia roja un Apertura, una Recopa sudamericana (la “europea” Supercoppa) e due Supercoppe sudamericane. Un giocatore che quando segnava esultava imitando un aeroplano (e per questo soprannominato avioncito, “aeroplanino”) e che stava vivendo un periodo di gloria anche con la Albiceleste di Daniel Passarella.
Massimo Moratti sapeva che i calciatori argentini in Italia avevano fatto sempre bene e, ad esempio, con il padre era diventato un mito Antonio Valentin Angelillo. Ed ecco che Moratti jr prese Sebastian Rambert da Barnal, zona sud della Provincia di Buenos Aires, un giocatore fantasioso cui si dicevano tante cose positive sul rettangolo verde di gioco. E visto che allora andava in voga portarsi dal Sudamerica una “spalla”, nel pacchetto Moratti prese anche un terzino destro, di un anno più vecchio di Rambert e allora in forza al Banfield e soprannominato el tractor (trad. “il trattore”). A differenza di Rambert, questo giocatore, di chiarissime origini italiane, era considerato un buon prospetto ed era noto per le sue sgroppate sulla fascia terzina destra, ma nulla più: il top era Rambert. Stop. I due giocatori vennero presentati alla stampa e Rambert fu subissato di foto, domande e autografi.
Quell’estate l’Inter prese anche (tra i tanti) Felice Centofanti, Roberto Carlos, Paul Ince, Maurizio Ganz e Antonio Manicone: Massimo Moratti aveva speso più di cinquanta miliardi delle vecchie lire. Ovviamente, Rambert, pagato 4 miliardi, fu il fiore all’occhiello.
Quella fu una stagione tribolata per l’Inter: settima in campionato (a diciannove punti dal Milan per la quarta volta in cinque anni campione d’Italia), qualificata per soli due punti in più in Coppa UEFA e semifinalista in Coppa Italia.
Come si comportò Sebastian Rambert nella sua prima stagione italiana? A novembre il giocatore si accasò già al Real Saragozza, in Spagna.
In cinque mesi di Inter, Rambert aveva raccolto zero-presenze-zero in campionato e solo due apparizioni tra Coppa Uefa e Coppa Italia: sconfitta di misura contro il Lugano, vittoria di misura sul Fiorenzuola, allora in Serie C1. O subì la pressione del calcio italiano oppure in Argentina era stato baciato dalla fortuna: delle due, l’una. O entrambe. Rambert da fenomeno ad oggetto misterioso in meno di cinque mesi: un classico di quello che nel calcio si chiama “bidone”.
Dopo la parentesi spagnola, l’avioncito tornò in Patria e giocò per cinque stagioni tra Boca Juniors, River Plate ed ancora Independiente. Tornò ancora una stagione in Europa, nei greci dell’Iraklis Salonicco, facendo molto male. Tornò ancora in Argentina chiudendo la carriera a soli 29 anni con l’Arsenal Sarandì. Era subissato di infortuni e decise di chiudere con il calcio giocato. Dopo il ritiro, il giocatore ha intrapreso un’interessante carriera come entrenador, ma non a grandi livelli.
Moratti rimase molto deluso di quell’acquisto e durante i suoi anni alla presidenza dell’Inter portò in maglia nerazzurra tanti campioni come tanti giocatori scarsi.
Nel 2009 ci riprovò e acquistò un altro giocatore argentino nato a Barnal come Rambert. Quel giocatore si chiamava Diego Alberto Milito, detto el principe, trascinatore dell’Inter fino al 2014 contribuendo alla vittoria del triplete nel 2010 diventando più che decisivo nelle vittorie di scudetto, Champions League (dopo quarantacinque anni) e Coppa Italia.
Vi chiederete chi fosse l’altro giocatore presentato con Rambert: quel giocatore da otto anni è vice-Presidente dell’Inter, ha militato nel club nerazzurro per diciannove stagioni consecutive (di cui tredici da capitano), è il giocatore interista con più presenze ed il più vincente di tutti nonché il giocatore straniero con più presenze in Serie A.
Il suo nome è Javier Zanetti. Il resto, raccontatelo voi.
Articolo a cura di Simone Balocco
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