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Ferrieri Caputi al Corriere dello Sport: “Giudicatemi solo come arbitro”

L’arbitro livornese si racconta al Corriere dello Sport dopo il suo esordio in Serie A

Photo LiveMedia/Danilo Vigo Genova, Italy, August 05, 2022, Italian football Coppa Italia match UC Sampdoria vs Reggina 1914 Image shows: The Referee of the match Maria Sole Ferrieri Caputi to Livorno LiveMedia – World Copyright

Sogno senza confini, un aereo per l’India, Mondiale under 17 femminile, il passo, l’ennesimo, prima di provare a realizzarne un altro, di sogno, ovvero quel Mondiale donne in programma in Australia e in Nuova Zelanda dal 20 luglio al 20 agosto 2023, dopo averne appena acciuffato uno, l’esordio della prima donna arbitro in serie A. Difficile, ma non impossibile. Perché Maria Sole Ferrieri Caputi è, come si dice, livornese «di scoglio» e non «di sabbia» e, si sa, gli scogli sono duri, in questo caso nell’accezione più positiva del termine. Da tradurre con determinazione, forza di volontà, sacrifici, lavoro. Passati («Ora dite che corro, ma quando ho iniziato mica era così»), presenti («Si lavora sul campo tutti i giorni, più 5/6 ore di studio sulla tattica a settimana») e futuri («Ora no, perché non sarei neanche pronta, ma per le atlete professioniste diventa un pensiero anche la cosa più bella del mondo, diventare mamma»). Un passo alla volta, come li ha compiuti lei, da Antignano Banditella-Orlando del 2007 fino al Mapei per Sassuolo-Salernitana. Avrebbe fatto il mediano, se avesse giocato a pallone, sarebbe stata archeologa («Ero fissata con l’Antico Egitto») se non fosse stata ricercatrice alla Fondazione Adapt (Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali). E se volete fare il bagno a Livorno, per lei si deve andare «a Calignano, c’è l’acqua più bella di tutti», mentre fra la Baracchina Bianca o Rossa (due luoghi-simbolo della Livorno che si aggrega) per un aperitivo, preferisce «il Circolo Nautico sul porto». I due libri che l’hanno e la stanno appassionando sono “Il coraggio di non piacere” e, ora, “Il coraggio di essere felice” di Fumitake Koga e Ichiro Kishimi. Se ci pensate, in due titoli, tutto il mondo di Maria Sole.

Il giorno dopo come è? 
«Come è non lo so, ancora non ho avuto modo di fermarmi, tutto troppo veloce. Vorrei avere un momento per me per vivermi tutto, in serenità».

Un giudizio? In campo ha sempre cercato la posizione migliore, ha assegnato un rigore… 
«I giudizi li dà il mio designatore, Gianluca Rocchi. Penso che sul rigore forse potevo avere un maggior angolo di visuale, ma il mio spostamento su una ripartenza complessivamente non mi è dispiaciuto. Anche se la posizione giusta, perfetta, non c’è mai». 

Una parola per l’esordio? 
«Bellissimo, me lo avevano detto, non ci ho creduto, almeno fino a quando non sono entrata sul terreno di gioco». 

Si studia? Si rivede? 
«Certo, cresci solo così, in maniera rapida, quando le categorie nelle quali arbitri permettono di avere qualche video accettabile. All’inizio non c’erano smartphone o altro. Con i colleghi capitava di andare a vederci reciprocamente, magari con piccoli video. E in sezione c’era una persona che poi metteva a disposizione della sezione le immagini». 

Il prossimo sogno da realizzare? 
«Una grande competizione a livello femminile, il prossimo anno c’è il Mondiale, è difficile, oppure gli Europei e il Mondiale successivo».

Una passione nata? 
«Sempre appassionata di calcio, a sei anni mi piaceva già da matti, come tutto lo sport che in generale mi emoziona, mi lasciava incantata. Le Olimpiadi sono il top. Certo, non pensavo già di fare l’arbitro. Però alle elementari, in giardino, giocavo a calcio. Poi c’era mio papà, che guardava sempre il calcio in tv. Ed infine i Mondiali, 1994, ero piccolissima e poi quelli del 1998. Lì nasce la mia passione per Baggio e quella maglia che mamma mi ha comprato al mercatino, non ufficiale, ma è la più preziosa di tutte». 

Arbitro, tutta colpa di un volantino… 
«Liceo Scientifico Federigo Enriques, con gli amici ci siamo messi d’accordo per iniziare il corso. Ma tutti quelli che avevano cominciato con me, dopo un anno e mezzo avevano smesso. All’epoca non pensavo certo di arrivare in A, all’inizio è passione, sport, condivisione, una rete sociale sana, pulita, che ti permette di crescere. E che ti dà un rimborso spese. Con i primi assegni che arrivavano alla BNL, perché li raggruppavano, mi ci sono pagata una vacanza all’Elba con le amiche».

Le difficoltà che ha incontrato? Ha mai pensato di mollare tutto? 
«Nelle categorie regionali, per aspetti non solo caratteriali ma anche fisici, sui quali ho lavorato. All’inizio non correvo come ora, ci ho lavorato. A Santa Croce sull’Arno, in Promozione, rimasi piantata su un lancio lungo. Mi dissi, quella ed altre volte, che avrei smesso. In serie D, dopo qualche prestazione o visionatura non brillanti».

A cosa ha dovuto rinunciare per la passione? 
«All’Erasmus, anche se tanti sono riusciti a fare entrambe le cose. Io no, un limite mio. Pensavo che per un arbitro, perdere una stagione sportiva potesse voler dire molto. Anche se penso sia un’esperienza molto formativa. Ma non è tutto, perché le rinunce sono continue. E non finiranno qui».

Spieghiamo? 
«Penso alla difficoltà di una maternità, e lo dico in maniera sana, perché ora come ora non ci penso. In un futuro, mi piacerebbe, ora forse non sono pronta, non è un peso. Però spesso ci troviamo davanti ad una scelta, non imposta da qualcuno, ma essendo delle sportive, tendiamo a rimandare famiglia e figli. Anche su questo si potrebbe fare un passo in avanti. Fra colleghe ci confrontiamo, è comunque un tema al quale ci troviamo davanti quotidianamente. I nostri sacrifici vanno anche pesati rispetto ad alcune rinunce, o scelte, che gli uomini non devono fare. Molte colleghe hanno programmato la gravidanza in un anno dove non c’erano Europei e Mondiali. Si perde la naturalità di una cosa che è naturale, è comunque un pensiero in più, familiare da una parte e sportivo dall’altra. Carina Vitulano, mio punto di riferimento, è riuscita a fare entrambe le cose ma…».

Ma come è essere donna in un mondo di uomini, nel senso del mondo del calcio? 
«Non mi piace il giudizio continuo, al quale noi donne siamo più esposte, sia che tu sia riservata, sia che tu sia estroversa. Succede nel mondo, non nell’AIA o nel calcio. Se poi tutto questo si porta in un mondo “maschile” come quello del calcio, sento che spesso devo stare attenta alle cose. E sinceramente spero che mi si giudichi come arbitro e non come donna, per una società più evoluta. Giudicate per il proprio lavoro e non per come ci si veste o ci si comporta». 

Si sente una pioniera o un’eccezione, nell’ambito della parità del genere? 
«Una pioniera, l’ultima staffettista di una staffetta. L’ultima perché ho portato ora il testimone fino alla serie A, il traguardo adesso è quello». 

Consigli per una ragazza – ma anche un ragazzo – che volesse fare il corso arbitri? 
«Tre. Provare, perché fino a quando non si prova non si capisce se una cosa piace o no; divertirsi, perché poi dove uno arriva lo si può capire solo con l’esperienza; di non trovare scuse con se stessi, se una partita, una visionatura, un test non sono andati bene, devi trovare il modo per lavorare per colmare le tue lacune» 

Messi, Ronaldo, Conte, Guardiola, Mourinho, Klopp: un giocatore o un allenatore che la emozionerebbe arbitrare? 
«Mi piace molto un allenatore che è Gianluca Rocchi ed è il nostro. E, al passato, cito Clagluna, fondamentale per noi arbitri». 

La spaventa l’idea che l’attenzione nei confronti di Maria Sole svanisca e arrivino i primi “problemi”? 
«Non mi piace stare sotto i riflettori, non ci ho mai pensato, non ho paura di questo». 

Femminile, serie C, serie B e serie A: definiamo? 
«In B ci sono più contatti, è particolare, ci sono più falli, più interventi “sporchi”, è un campionato tosto, delle belle battaglie ma divertenti per l’agonismo che c’è in campo. In A ancora troppo presto, ieri hanno pensato a giocare, bella da arbitrare, li lasci andare da soli e giocano. La femminile ha ritmi di gioco un po’ più bassi, però per alcune cose è più imprevedibile». 

In partenza per il Mondiale Under 17, come ci si prepara? 
«Fisicamente, ovvio. Poi, tecnicamente: c’è un portale dove ci sono episodi e spiegazioni Fifa. E poi ripasso gli appunti del raduno a Lisbona a febbraio. Non è diverso da Università o scuola, si studia». 

Perdoni, ma non mi dica che conosce le squadre Under 17 del Mondiale femminile? 
«Lo fai quando sei lì, con le altre colleghe. In Sud America, in Cile ad aprile, vedevamo tutte le partite e poi chiedevamo informazioni alle colleghe che conoscevano la squadra delle loro Nazioni. Qualche giorno e hai il quadro completo». 

Quante lingue conosce? A Vilhena s’è rivolta in inglese domenica… 
«Italiano e inglese, poi in Cile mi sono avvicinata allo spagnolo, che mi è tornato utile quando ho fatto la Champions in Spagna» 

C’è una canzone che la caratterizza e che unisce calcio e musica? 
«Ho sentito “L’Isola che non c’è”, di Bennato. Un momento per riflettere, in due giorni di frullatore, per capire cosa fosse successo. C’è una frase alla fine che è rimasta dentro…» 
«E ti prendono in giro se continui a cercarla/Ma non darti per vinto, perché/Chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle/Forse è ancora più pazzo di te». 

Fonte: Corriere dello Sport

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