Si sente troppo spesso “il calcio è solo un gioco”. Un’affermazione vera, sì certo, ma solo in parte. Il calcio è soltanto un gioco, questa frase andrebbe ripetuta a chi ha strappato la vita ad un innocente quattordicenne investendolo con la propria auto nella notte di Francia-Marocco a Montpellier dopo una folle corsa. Una vita spezzata nel fiore dell’adolescenza. E da cosa? Da un tifo. No, sbagliato, da un tifo malato, dietro il quale probabilmente si nasconde una “scusa” per spiegare quell’ignobile gesto, quel raptus di pazzia. Perché ognuno dovrebbe essere orgoglioso di indossare la maglia della propria squadra del cuore, o in questo caso, ancor più quella della propria nazione. Ma il pallone, non porta soltanto ad eventi negativi, sarebbe un reato associare questo sport esclusivamente ad essi, non ha solo il sapore di scontri e di morte.
La favola scritta dal Marocco, anzi la storia di un popolo, quello africano, resterà impressa per sempre. Perché quei 25 ragazzi del Maghreb hanno fatto sognare un popolo, anzi no, l’intero globo con la loro galoppata Mondiale. Tutti noi, indipendentemente dalla nostra nazione, siamo stati incollati alla tv, e chi non lo nega mente, per seguire quella “Cenerentola” del Mondiale che partita dopo partita spazzava via come un tornado big europee. Una muraglia rossa quella costruita dai marocchini, ed un sogno infranto soltanto dal destino, e da quella Francia così affamata e spietata. Anche l’Iran è una squadra che ci ha fatto riflettere, che ci ha condotto a stimolare la coscienza, ancora una volta il calcio che scende in campo come un potente mezzo di comunicazione. E quei ragazzi che si sono rifiutati di cantare l’inno per rispetto di quanto sta avvenendo nel loro Paese, ed in particolare per essere da parte delle loro donne, per difendere il loro status. Una voce che poi, è stata repressa, da quel regime, così spietato ed assetato di vendetta.
Ma il Mondiale, e l’essenza del calcio, è anche in quel bambino che con indosso la maglia della Seleçao, tra le strade di chissà quale città del Brasile, si impegnava imitando “la danza del piccione” inventata da Richarlison. Chissà, forse il suo idolo. Ma è anche in quel bimbo, che con indosso la 10 di Messi ballava tra la gioia dei tifosi argentini proprio nell’ultimo Mondiale del 10 della Selección, forse il più grande mai esistito dopo Diego Armando Maradona. Il calcio, unione di culture, di religioni, voce, simbolo, fenomeno di condivisione di gioia ma anche di tristezza. E Carlos Bejar, un uomo di 82 anni, di Entre Rios, ci ricorda che il pallone e la passione per esso non ha età. Ci ricorda che quando ci sono i Mondiali, ognuno di noi sente ancora di più l’appartenenza, e tutti siamo come dei fratelli diretti verso un’unica missione, quella di alzare al cielo la Coppa del Mondo. Bejar è un anziano uomo, ma pur di sostenere l’Argentina, dato che in casa non ha a disposizione una tv, si è piazzato con la sua sgualcita seggiola davanti ad una vetrina di un negozio che vendeva Smart Tv. Questo è l’amore per il calcio, un amore travolgente, senza età, una passione più forte di ogni limite esistente. Il calcio non è solo un gioco.
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