I Paesi Baschi sono una delle diciassette Comunidad autónomas (Comunità autonome) che compongono amministrativamente la Spagna. Tra queste, i Paesi Baschi. Dove siamo? Guardando una qualsiasi cartina della Spagna, siamo “in alto a destra”, al confine con la Francia, siamo bagnati dall’Oceano Atlantico che lì diventa Golfo di Biscaglia (o Bizkaiko Golkoa, per dirla in euskera, l’idioma basca).
Ogni Comunità spagnola è un mondo a sé ed i Paesi Baschi non sono da meno, in quanto, insieme alla Catalogna, è una delle Comunidad che più di tutte vorrebbero staccarsi dal resto del Paese per una certa insofferenza verso il potere centrale rappresentato da Madrid e dalla Castiglia.
I Paesi Baschi, “Euskadi” in lingua basca, sono una Comunità di oltre 2 milioni di abitanti la cui capitale è Vitoria-Gasteiz. Divisa in tre province, anche nei Paesi Baschi si gioca a calcio e le principali squadre sono quelle di San Sebastian e Bilbao, la Real Sociedad e l’Athletic Club. Nei loro stadi (l’”Anoeta” ed il nuovo “San Mames”) appaiono i simboli del nazionalismo e dell’orgoglio di quel territorio che incarna la lotta contro il centralismo spagnolo. E in alcune occasioni si vede l’ikurrina, la bandiera dei Paesi Baschi, e l’inno spagnolo (la Marcha real) è fischiato. Un oltraggio, ma da quelle parti non si è in Spagna ma si è nei Paesi Baschi. Un’altra cosa.
Calcisticamente, se si parla di Paesi Baschi la squadra più rappresentativa è proprio l’Athletic Club, la squadra principale di Bilbao. Dai colori bianco-rossi (anzi zurigorriak) per rispetto verso la squadra inglese del Sunderland, l’Athletic Club (non Atletico Bilbao, come erroneamente diciamo in Italia) è nato nel 1898 ed insieme a Real Madrid e Barcellona detiene il primato di non essere mai retrocesso in Segunda division. Il suo palmares vede in bacheca otto titoli nazionali (l’ultimo nella stagione 1983/198), ventiquattro Cope del Rey, tre Supercoppe di Spagna ed in campo europeo ha raggiunto due volte la finale di Coppa UEFA/Europa League (stagione 1976/1977 e 2011/2012), perdendo contro la Juventus e Atletico Madrid. Insomma, una grande di Spagna che però negli 39 anni ha avuto come best ranking solo un secondo posto in campionato. Poca roba, purtroppo, per i tifosi rojiblancos.
Nonostante tutto, il tifo allo stadio “San Mames”, la “Catedral”, non manca mai e gli spalti sono sempre pieni e vocianti nei confronti di una squadra iconica non solo di tutto l’Euskadi, ma in tutto il Mondo del calcio.
L’Athletic Club è iconico anche per il fatto che nel suo “regolamento” interno è fatto divieto tesserare giocatori non nati nei Paesi Baschi: chi è nato in una qualsiasi città spagnola che non rientri in una delle tre province amministrative basche (Gipuzkoa, Alava e Biscaglia) non può essere tesserato. C’è chi lo chiama “nazionalismo”, c’è chi lo chiama “rispetto delle origini”, fatto sta che nei quasi 125 anni di storia della società, nessun giocatore non basco (almeno di origine) ha mai giocato al “San Mames”. Nel 2010 è stato indetto un referendum tra i tifosi se cambiare lo meno lo status della società: nove tifosi su 10 hanno votato contro, mentre nel caso di tesserare giocatori oriundi, meno di 2/3 dei tifosi è d’accordo ma la parentela basca non deve essere lontana nel tempo (vedasi le storie recenti di Inaki Williams e di Fernando Amorebieta).
La pagina italiana “Wikipedia” dell’Athletic Club rileva 361 giocatori complessivi come gli iconici Gorostiza, Telmo Zarra, “Pichichi” Aranzadi, Etxeberria, Aduriz e Muniain, ma il giocatore basco che più di tutti ha incarnato lo spirito, il sangue e il cuore euskal ed il cuore dell’Athletic Club è un centrocampista che ha donato la sua vita (calcistica) al club rifiutando tantissime offerte (anche miliardarie) da parte di squadre non basche ed appartenenti all’élite del calcio europeo. Lui è Julen Guerrero e oggi, a diciassette anni dal suo ritiro, le sue gesta sono ancora ricordate alla “Cattedrale” di Bilbao.
Guerrero ha avuto due peculiarità: è una delle bandiere del calcio non solo basco, ma anche del calcio mondiale perché “el rey lion” (chiamato così per via della sua folta capigliatura bionda), è paragonabile a quel tifoso che sin dalla tenera età viene portato dal nonno allo stadio con la maglia e la sciarpa della squadra del cuore, sognando un giorno di vestire proprio quella maglia. Guerrero c’è riuscito: è entrato nel settore giovanile dell’Athletic Club a 8 anni e ha indossato i suoi colori fino al termine della stagione 2005/2006, passando inizialmente anche attraverso la sua equipo filial, il Bilbao Athletic.
Guerrero debuttò in prima squadra il 6 settembre 1992, dieci anni dopo il suo ingresso nei piccoli del club, con Jupp Heynkes in panchina: un allenatore straniero (tedesco, nella fattispecie) che fa debuttare un basco. Eh sì, perché lo stesso regolamento del club non vieta agli allenatori stranieri di allenare il club (e se ne contano ben diciannove in 125 anni di storia del sodalizio bilbaino).
Guerrero giocò nell’Athletic Club fino al 20 giugno 2006, giorno di Athletic Club-Barcellona, la sua ultima partita. La numero 430 della sua carriera bilbaina dove ha segnato 116 reti totali, senza però vincere nessun trofeo. Per lui però il fatto di non aver giocato in una squadra che competesse per la vittoria della Liga (miglior posizione il secondo posto nella stagione 1997/1998) e non essere (quasi) in pole position per la vittoria di qualcosa non lo ha mai abbattuto. Anzi per lui è sempre stato un onore indossare quella maglia che sognava di indossare da quando aveva 8 anni ed entrava per la prima volta nel settore giovanile del club. Per lui giocare al “San Mames” era un fatto d’obbligo, tanto che nel 1995 ha firmato un contratto record, non tanto per l’ingaggio da top player, ma per la durata: 12 anni di contratto. Se non era un record, quasi c’eravamo. Per uno di 21 anni, dodici anni di contratto è un contratto a vita con quella squadra. E di offerte al centrocampista di Portugalete (la sua città basca di nascita) ne ha ricevute molte, soprattutto nel suo quadriennio top (1994-1998) quando l’Athletic Club ha ricevuto le offerte più disparate non solo dalle due big di Spagna, il castigliano Real Madrid ed il catalano Barcellona, ma anche da parte di squadre inglesi e delle big italiane. Guerrero ha sempre, ma anche il Bilbao non ha accettato contropartite tecniche in cambio, perché nel suo statuto non può tesserare giocatori non baschi ed è difficile trovare giocatori baschi che non giocano in squadre basche. L’Athletic Club sapeva che poteva contare sulla sua perla. Una “perla” che tra i due anni Mondiali (1994 e 1998) era diventato non solo un punto fermo della Nazionale spagnola ma il leader della squadra, andando tre volte in doppia cifra in classifica marcatori e guidando (dal campo) la squadra addirittura al secondo posto nella stagione 1997/1998, miglior posizione dallo scudetto del 1984. Nel mentre, Guerrero è diventato il portabandiera (nel Mondo) del calcio basco, diventando il giocatore simbolo della Nazionale basca, la Euskal Selekzioa: a oggi, il centrocampista di Portugalete è recordman di presenze e di reti di una Nazionale non riconosciuta dalla Uefa ma che rappresenta un territorio ed un popolo fiero delle proprie radici e del proprio nazionalismo.
In quegli anni, la figura di Julen Guerrero è avvolta da un’aurea di benevolenza: è il capitano ed i compagni lo tengono sul palmo di una mano, i tifosi lo venerano, le ragazze lo amano, i ragazzi delle giovanili sognano di giocare in prima squadra e giocare accanto al mitico numero 8 con i lunghi capelli castano chiari. Però dai 26 anni, con l’inizio del nuovo millennio, Guerrero non è tenuto più in considerazione come prima da parte degli allenatori che si sono succeduti fino al 2006 (Hernandez, Rojo, Heynckes, Valverde, Mendilibarr e Clemente, che lo aveva fatto debuttare nel 1993 in Nazionale). Ai tifosi questa cosa non piaceva e gli dedicarono cori e ogni volta che entra in campo sapevano che il loro idolo avrebbe fatto qualcosa di decisivo. Le sue ultime stagioni lo hanno visto in campo solo per raddrizzare il risultato o per passerelle.
Quando viene accantonato, non si scompone: “se non gioco, significa che non sono al top, non sono funzionale alla squadra e giocherò solo quando il mister mi fa giocare. Del resto lui è l’entrenador, io sono un fantasioso, un fantasista”, avrà pensato il giocatore (magari masticando un po’ amaro).
Un anno prima della scadenza del contratto di 12 anni, nel giugno 2006 Guerrero decise di dire basta e rescinde. Tra le lacrime sue e di tutto il popolo bilbaino. Eppure aveva 32 anni, era tonico e sarebbe potuto andare a giocare dove voleva. Invece rifiutò ogni proposta e disse basta: non tradisco, neanche a 32 anni. Non tradisco la mia gente, il mio popolo, i miei colori, la mia fede.
Oggi Guerrero ha 49 anni (da poco compiuti) ed allena la Nazionale Under 17 spagnola. Ha avuto un passato da opinionista e giornalista e ha un figlio, Julen Jon, che milita nel Real Madrid e gioca di destro. Un ragazzo che rispetto al padre non solo gioca con un altro piede, ma che, essendo figlio della globalizzazione calcistica, milita nella rivale storica del calcio basco. Ma è la vita. Invece il padre no: sempre i Paesi Baschi prima di tutto, sempre prima Bilbao, prima sempre Euskal, sempre prima Portugalete.
In definitiva, Julen Guerrero è stato bandiera, un’icona, un marchio di fedeltà e rispetto verso la propria squadra. Un soldato fedele che ha rinunciato ai successi che avrebbe potuto avere altrove pur di “servire” il suo Athletic Club, la squadra basca per antonomasia, la più vincente, la più storica, la più iconica. Una squadra che ha avuto, ha e sempre avrà giocatori che hanno diverse X, Z, K o R (come ne suo caso) nel cognome. Anche in queste consonanti è protetto il cuore basco. Tutto molto basco, todo muy vasco. Anzi oso euskaldun dena.
Questa è stata la storia di Julen Guerrero. Un basco, capitano di una squadra basca composta da una rosa 100% orgogliosamente basca. Un’appartenenza nazionalistica lontana da sovranismi vari ma che appartiene a gente che mette il cuore basco davanti a tutto. Là, in quella Comunidad in alto a destra sulla cartina e che confina con la Spagna ed è bagnata dal golfo di Biscaglia. Anzi, Bizkaiko Golkoa. Là, in quella parte di Spagna, ci tengono che si dica così.
Articolo a cura di Simone Balocco
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