Il 18 febbraio è il quarantanovesimo giorno dell’anno e si festeggia san Angilberto di Saint-Riquier. Nella storia, il 18 febbraio è il giorno della riunione del primo Parlamento italiano (1861), della nascita della Treccani (1925), della scoperta di Plutone (1930) e della firma del nuovo Concordato Stato-Chiesa (1984). Ma un altro evento è accaduto il 18 febbraio: precisamente nel 1967 a Caldogno, in Provincia di Vicenza. Un giorno non come gli altri per gli appassionati di calcio: il 18 febbraio 1967 è una sorta di Natale ‘’laico’’ perché è il compleanno di Roberto Baggio.
Oggi Baggio compie 56 anni, è lontanissimo dal mondo del calcio, ma quello che caratterizza il Baggio di oggi è la sua vita normale da quando si è ritirato dal mondo del calcio: l’ex Divin codino è un uomo qualsiasi, lontano da lustrini, fama e luci della ribalta. E per questo basti pensare allo scatto che la figlia Valentina, il marzo scorso, gli ha fatto mentre si stava preparando per andare nei suoi campi sulle colline vicentine a bordo di una delle più note utilitarie. Baggio che fa il contadino: per molti un qualcosa di inconcepibile (positivamente), per altri un qualcosa di normale visto che Roberto Baggio è sempre stato normale nella sua normalità in tutta la sua carriera e nella sua esistenza.
Una carriera iniziata a Vicenza, continuata a Firenze e che poi lo ha portato a vestire i colori delle tre grandi del nostro calcio, ma che lo ha visto fare cose gigantesche in provincia, come a Bologna e Brescia. In ogni piazza in cui ha giocato, Roberto Baggio ha dato tanto e ha ricevuto altrettanto. Solo che se si guarda il suo palmares, ci sono solamente due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa Uefa ed il Pallone d’oro 1993: a parte il premio di France Football, poca roba. Ma se si pensa agli applausi ricevuti negli stadi in cui ha giocato, il discorso cambia.
Un esempio? Il minuto 86 di Milan-Brescia del 16 maggio 2004, ultima partita di campionato. Baggio militava nel Brescia ed in un “Meazza” pieno come un uomo, mister Gianni de Biasi, allenatore delle “rondinelle”, lo richiamò in panchina: al suo posto, Giuseppe Colucci. L’emozione di Colucci in quel momento sarà stata senza dubbio molto alta, in quanto avrebbe sostituito il suo capitano non solo nell’ultima partita di campionato, ma nell’ultima partita della sua carriera.
Lo stadio meneghino si alzò in piedi per rendere omaggio all’uscita dal campo per l’ultima volta di uno dei giocatori più forti ed iconici della storia del nostro calcio. In piedi, indistintamente, tanto i tifosi bresciani, che nelle quattro stagioni ‘’baggiane’’ hanno visto il loro club toccare vette mai raggiunte prima (ottavo posto in campionato e finale di Coppa Intertoto), quanto quelli milanisti, che hanno avuto Baggio per due stagioni senza che però il giocatore desse quel quid in più (anche per colpa di scelte tecniche e qualche infortunio di troppo) che ha dato altrove. Ma Roberto Baggio era Roberto Baggio, sempre e comunque. E con il suo addio, si chiudeva un grande pagina di calcio.
Perché Baggio è sempre stato così: un giocatore di tutti, non di nessuna squadra. Non una bandiera, ma una bandiera da sventolare sotto il cielo del calcio da parte di chi ama il calcio. Baggio è andato anche oltre: è stato l’emblema del nostro calcio allora caput mundi (nel vero senso della parola) tra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Duemila. E poi quel Pallone d’oro nel 1993 che ha riportato il premio in Italia dopo undici anni, dai tempi di Paolo Rossi, che non era un “10” come Baggio ma un “9”. “Pablito” aveva vinto il premio grazie al fantastico mondiale spagnolo del 1982, Baggio lo aveva vinto perché era da almeno tre anni sulla cresta dell’onda calcistica europea e nel 1993 aveva portato la Juve a vincere la Coppa Uefa e a renderla competitiva dopo anni. Premio vinto, tra l’altro, davanti a Dennis Bergkamp ed Eric Cantona, non proprio gli ultimi arrivati.
Avrebbe vinto (quasi sicuramente) anche il Pallone d’oro nel 1994. Lo vinse invece Hristo Stoičkov, che aveva trascinato la ‘’sua’’ Bulgaria ad un Mondiale clamoroso negli States. Eppure anche il 1994 è stato un anno ‘’baggiano’’, soprattutto perché l’attaccante di Caldogno trascinò, da solo, gli azzurri fino alla finale di Pasadena contro il Brasile vinta poi dai verde-oro ai rigori. E proprio Baggio è stato colui che ha sbagliato l’ultimo rigore: destro alto sopra la traversa. Baggio sbaglia e Taffarel fa festa davanti a lui. Il 10 azzurro ha la testa china e le mani in vita: ha sbagliato proprio il giocatore simbolo di quella spedizione, quello che aveva deluso nelle prime tre partite della fase a gironi (sostituito al 21’ nella seconda partita contro la Norvegia perché Pagliuca si era fatto espellere), ma quello che al minuto 88 degli ottavi contro la Nigeria aveva fatto scendere virtualmente i compagni dall’aereo che li avrebbe riportati in Italia e che portò la Nazionale a suon di gol (5 in tre partite) al Rose Bowl di Pasadena il 17 luglio 1994.
Roby Baggio in carriera ha avuto la fortuna di giocare altri due Mondiali: nel 1990, 23enne, si era distinto come uno dei prospetti più interessanti, confermando quando aveva fatto vedere con la maglia della Fiorentina negli anni precedenti (vedere il gol alla Cecoslovacchia, per capirci); nel 1998 si giocò il posto di titolare con il suo erede designato, Alessandro del Piero, giocando meglio di lui perché più in palla nel periodo pre-Mondiale: rimarrà negli sliding door la palla calciata di destro al volo ed uscita di pochi centimetri sul secondo palo di Barthez nei quarti contro la Francia poi vincitrice ai rigori. Si pensava che Baggio potesse prendere parte anche al Mondiale di Giappone-Corea del 2002, ma l’allora CT azzurro, Giovanni Trapattoni, non lo convocò in quanto arrivava da un grave infortunio che lo stesso Baggio smaltì in tempo per le convocazioni: in 77 giorni si era ripreso dalla rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro con lesione del menisco interno, ma sull’aereo per l’Estremo oriente lui non salì. In compenso, quel recupero record gli permise di giocare senza problemi le due stagioni successive. Piuttosto che niente (non essere convocato per il Mondiale), meglio piuttosto (continuare a giocare senza problemi).
Nel 2000, Roberto Baggio era ritornato a giocare in provincia, nella provincia calcistica che più provincia calcistica non si poteva: Brescia. Lo chiamò Carlo Mazzone: si intesero subito. Con le ‘’rondinelle’’, Baggio si prese la maglia numero 10 e la fascia di capitano. Rimase a Brescia quattro stagioni, disputando 101 partite e segnando quarantasei reti. Con il Divin codino, il Brescia raggiunge un incredibile ottavo posto in classifica (stagione 2000/2001), raggiungendo anche una finale Intertoto perdendo contro un PSG più esperto e più forte delle ‘’rondinelle’’ l’anno successivo. Lui amava Brescia, Brescia lo amava. Con un solo voto ottenuto nell’edizione 20021 del Pallone d’oro, Roberto Baggio diventava il primo giocatore (e finora unico) del Brescia riuscito ad entrare nella classifica del premio di France Football. Con quelle 46 reti, oggi Baggio occupa il decimo posto nella classifica all time del Brescia.
Furono quattro anni incredibili quelli bresciani, quattro anni in doppia cifra: era dai tempi juventini che non segnava almeno quaranta reti in quattro campionati consecutivi. Poi la partita del 16 maggio 2004, quella dell’addio. Quella della standing ovation da parte della Scala del calcio.
Standing ovation che avvenne anche il precedente 28 aprile, quando fu organizzata una partita amichevole tra Italia e Spagna a Genova per permettere a Roberto Baggio l’addio anche alla Nazionale. Anche in quel caso, al minuto 86, fermi tutti: il ‘’Ferraris’’ si alzò in piedi e salutò per sempre il suo numero 10 azzurro uscire dal campo. Ironia della sorte, allenatore di quell’Italia fu Trapattoni, colui che non lo portò al Mondiale nippo-coreano.
Se ad un giocatore si fa una standing ovation, un motivo ci sarà. Ed è la carriera di Roberto Baggio a raccontarcelo: trentacinquesimo giocatore con più presenze Serie A e settimo marcatore di sempre, 28 cartellini gialli e due cartellini rossi in ventidue anni di carriera. E poi in numeri in campo: gol di destro, gol di sinistro, dribbling, rabone, stop al volo-portiere scartato-gol (leggasi il suo contro la Juventus del 1° aprile 2001), le punizioni, i rigori. Sì, i rigori segnati: Baggio dagli undici metri è stato letale, pochi errori. Ma l’errore più grave è quello del 17 luglio 1994, il punto più basso della sua carriera nel Mondiale più bello della sua carriera. Ma da quell’errore (che un po’ lo ha segnato), è rinato dalle sua ceneri come l’araba fenice.
Da quel 16 maggio 2004 a oggi, il calcio è cambiato, noi siamo cambiati. Baggio dopo la breve parentesi nel settore giovanile della Nazionale, è lontano dal calcio. Non allena, non va in tv a commentare, in questi anni ha rilasciato qualche intervista (qualcuna un po’ piccata), ma siamo sicuri che segua sempre, come un qualsiasi tifoso, il calcio italiano.
Lo hanno chiamato ‘’Raffaello’’, ma anche ‘’coniglio bagnato’’ e per tutti rimarrà il “Divin codino”. Quello che ha segnato la prima rete in Serie A al ‘’San Paolo’’ nel giorno della vittoria dello scudetto del Napoli davanti a Maradona. Da allora, altri 204 gol in massima serie.
Roberto Baggio è stato una grande storia. Una storia di umiltà, picchi e cadute, vittorie e vittorie che potevano essere ancora maggiori. I suoi tifosi quando ascoltano “Marmellata #25” di Cremonini, cantano a squarciagola e con il groppo in gola il ritornello “da quando Baggio non gioca più/non è più domenica”, ricordando con grande orgoglio cosa è stato Roberto Baggio, il ragazzo dai capelli ricci che, dalla piccola Caldogno, è diventato un mito. Ed è grazie a papà Florindo e mamma Matilde se il 18 febbraio di ogni anno è un secondo Natale per tutti.
Articolo a cura di Simone Balocco
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