Cristo si è fermato a Medellin: 2 luglio 1994, la morte di Andrés Escobar

USA ‘94 è stato un Mondiale particolare: il primo giocato non seguendo l’alternanza Sudamerica-Europa-Sudamerica; il primo caratterizzato dal mero business; il primo giocato in uno Stato non football dipendente; il primo che vide la finale disputata in una città distante oltre 4mila chilometri dalla capitale; il primo assegnato dopo una finale conclusasi ai rigori. A vincere quell’edizione fu il Brasile in finale contro l’Italia.

Teatro dell’ultimo atto, il “Rose Bowl” di Pasadena, in California, un impianto che ospitò, in tutto, otto partite tra cui anche la semifinale vinta dal Brasile contro la Svezia e la “finalina” tra gli scandinavi e la sorprendente Bulgaria. Con i suoi 91.700 posti a sedere, il “Rose Bowl” era lo stadio più capiente dell’intera kermesse iridata.

La prima di quelle otto partite si disputò il 18 giugno 1994 e vide di fronte la Nazionale della Colombia e quella della Romania. I Cafeteros giocarono a Pasadena anche la seconda partita del girone contro gli Stati Uniti padroni di casa. In entrambe le occasioni, i sudamericani persero.

Ecco, focalizziamoci su tre elementi: la Nazionale colombiana che prese parte a USA ’94; Colombia-Romania e Colombia-Stati Uniti.
La Colombia era una delle squadre favorite per la vittoria del Mondiale: magari non la favorita numero 1, ma comunque una Nazionale molto competitiva. Composta da giocatori davvero di talento, i Cafeteros si erano qualificati al Mondiale piazzandosi al primo posto nel mini-girone A Conmebol davanti ad Argentina, Paraguay e Perù. Il colpaccio è stata la seconda vittoria contro l’Argentina: 5-0 al “Monumental” il 5 settembre 1993 con doppiette di Rincon, Asprilla e gol di Valencia. Tricolor qualificata, Albiceleste a giocarsi il pass mondiale (poi ottenuto) contro l’Australia. La Colombia contro l’Argentina vinse sia all’andata che al ritorno: nel primo caso, l’Albiceleste perse dopo trentatre risultati utili consecutivi, nel secondo perse in casa dopo sei anni. La Colombia uscì dal “Monumental” tra gli applausi dei tifosi argentini.

Fonte Foto: siamolaroma.it

Il calcio colombiano del tempo si stava imponendo come uno dei migliori del continente sudamericano e del Mondo. Artefice tecnico di quel progresso calcistico era l’allora Commissario Tecnico Francisco “Pacho” Maturana, un’istituzione in quella parte di Mondo.
Scarna di risultati internazionali importanti se non contare un secondo posto nella Copa America del 1975 e la partecipazione ad un solo Mondiale (Cile 1962), la Nazionale colombiana, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, ottenne risultati di rilievo: terzo posto nella Copa America ’87 e ‘91, ottavi di finale a Italia ’90 (secondo Mondiale cui prese parte), quarto posto nella Copa America ’93, quarto posto nel ranking FIFA nel 1994. A livello di club, l’onda era iniziata nel 1989 quando, per la prima volta, una squadra colombiana aveva vinto la Coppa Libertadores (la Champions sudamericana), la Coppa Interamericana (una “finalissima” tra le vincitrici delle Coppe dei Campioni sudamericana e Centro-nord americana) ed aveva disputato la finale di Coppa Intercontinentale a Tokyo. Quella squadra era l’Atlético Nacional de Medellín, i Verdolagas, composta interamente da giocatori colombiani (i puro criollos). Per un calcio colombiano in espansione e molto interessante dal punto di vista dei risultati, ecco il contraltare della situazione socio-politica-economica all’interno del Paese. La Colombia di quegli anni era un disastro: povertà assoluta, crisi sociale elevata, anarchia, violenza. Il calcio si sperava potesse diventare il traino per far uscire il Paese da quella piaga: nel 1986 la Colombia avrebbe dovuto ospitare i Campionati del Mondo di calcio, ma nel 1982 (otto anni dopo l’assegnazione) rinunciò all’organizzazione in quanto Bogotà era un disastro economico, di ordine pubblico e di organizzazione. La FIFA assegnò il Mondiale al Messico, giusto per rimanere nella consueta alternanza.

Il Paese sudamericano, al tempo, era in mano al narcotraffico ed era il maggior produttore (ed esportatore) al Mondo di sostanze stupefacenti, cocaina su tutte, con i “cartelli” che si spartivano il potere nel Paese. Massimo esponente del narcotraffico era Pablo Escobar, el Patron, deus ex machina del traffico di droga tra la Colombia ed il Mondo e a capo del “cartello” di Medellin. E la sua morte, avvenuta il 2 dicembre 1993, sembrava aver potuto portare calma e lucidità in Colombia. Cosa che non avvenne: il “cartello” rivale di Calì prese il controllo del narcotraffico e la situazione non migliorò affatto.

Il calcio colombiano di quel periodo era molto vicino ai narcotrafficanti: l’Atlético Nacional era in mano allo stesso Escobar (che però tifava Deportivo Independiente de Medellin); i Milionarios di Bogotà erano di José Gonzalo “Mexicano” Rodriguez Gacha; l’América de Calì era dei fratelli Gonzalo e Rodriguez Orejuela; sei altre squadre, più o meno note, erano sotto l’influsso monetario dei “signori della droga” colombiani. Anche la situazione civile era precaria: da una parte i narcos, dall’altra i guerriglieri “politicizzati” che si opponevano allo Stato centrale (due su tutti, FARC e ELN). In mezzo, lo Stato colombiano colpito ai fianchi da questa situazione.
Tornado al calcio giocato, USA ’94 rappresentava la terza partecipazione mondiale della Nazionale colombiana dopo Cile ’62 e Italia ’90.

Nel Mondiale americano, i Cafeteros erano stati inseriti nel girone A con i padroni di casa e le europee Romania e Svizzera: un girone, nel complesso, fattibile.

I simboli calcistici di quella Colombia erano Fausto Asprilla, Freddy Rincon, Leo Alvarez, Luis Herrera e, soprattutto, Carlos Valderrama, el Pibe, il giocatore più mainstream del Paese e “miglior giocatore sudamericano” uscente. Non fu convocato l’estroso portiere René Higuita, in carcere per aver fatto da intermediario nella liberazione delle figlie di un personaggio molto vicino al “cartello” di Medellin e, quindi, a Pablo Escobar. Al suo posto, Oscar Cordoba.
La Colombia in tre partite fece una pessima figura: una vittoria, due sconfitte, quattro gol fatti, cinque subiti. Ultimo posto nel girone, tutti sull’aereo e mesto ritorno a casa. La delusione fu tremenda per tutti.
La squadra giallo-blu-rosso si sarebbe giocata la qualificazione il 22 giugno contro i padroni di casa: in caso di vittoria, il discorso “ottavi” sarebbe stato ancora aperto.

Contro gli statunitensi, la partita finì 2-1 per gli Stati Uniti e addio sogni di gloria per i Cafeteros. Ad aprire le marcature era stato Andrés Escobar…con un autogol: l’americano Harkes da sinistra tirò verso l’area colombiana ed il numero 2 colombiano calcolò i tempi di intervento, ma deviò il tiro dell’avversario nella sua porta, sorprendendo Cordoba. Raddoppiò poi Stewart e Valencia, al 90’, siglò il gol della bandiera colombiana.

La Colombia vinse poi 2-0 contro la Svizzera, ma agli ottavi passarono Romania, Svizzera e Stati Uniti: Valderrama e compagni a casa. Colombia a casa come un Camerun, una Bolivia, una Grecia, una Norvegia ed un Marocco qualsiasi.

Il 2 luglio 1994 si giocarono i primi ottavi di finale: Germania-Belgio e Svizzera-Spagna, con i teutonici e gli spagnoli qualificati ai quarti. Di quel girone A, solo la Romania approdò ai quarti, venendo sconfitta ai rigori dalla Svezia.

Quel 2 luglio, in pieno Mondiale, arrivò una notizia scioccante dalla Colombia: Andrés Escobar era stato ucciso nel parcheggio di un locale di Medellin. Aveva 27 anni.

In Colombia tutti rimasero sconvolti: il giocatore era giovane, aveva una carriera davanti ed era chiamato “il difensore gentiluomo” perché era il classico bravo ragazzo che per “mestiere” doveva impedire agli attaccanti di segnare, compiendo interventi rudi.
Chi aveva ucciso Andrés Escobar? Si pensava che ad averlo ucciso fosse stato un tifoso deluso dal fatto che la Colombia fosse stata eliminata alla prima curva del Mondiale. Un tifoso deluso, fin troppo deluso per spingersi ad un gesto di quel tipo.

Le indagini mostrarono, e confermarono, il lato oscuro della Colombia di quegli anni. Con l’arresto di Munoz Castro, si scoprì che la Nazionale colombiana era stata bersaglio di feroci minacce: il 22 giugno, nell’hotel che ospitava la squadra, prima del match contro gli USA, arrivò un fax anonimo che diceva che se Gabriel Gomez, considerato uno dei peggiori contro la Romania, avesse giocato contro gli USA sarebbero stati uccisi tutti i giocatori e lo staff tecnico. Gomez, inoltre, era fratello di Hernan Dario, collaboratore del CT Maturana in Nazionale e questa cosa non fu mai vista bene. Una situazione paradossale e terrificante per i giocatori. Ed infatti contro gli Stati Uniti la squadra sudamericana commise tanti errori proprio perché entrarono in campo poco lucidi e sotto pressione. Ma anche Luis Herrera aveva giocato un Mondiale con la testa altrove: tre mesi prima che iniziasse la kermesse gli fu rapito il figlio di tre anni ed il giorno dopo la sconfitta, contro la Romania, scoprì che il fratello era morto in un incidente automobilistico. Il giocatore volle tornare, giustamente a casa, ma fu lo stesso Andrés Escobar a consigliargli di rimanere negli States e continuare a giocare per il fratello.

I giocatori reduci del Mondiale passarono in nove mesi da essere idoli di un popolo a bersaglio delle critiche più feroci di un Paese intero.
Nonostante i calciatori reduci dal Mondiali furono “invitati’’ a non uscire di casa onde avere problemi, Andrés Escobar si oppose a questo ‘’divieto’’ ed il 1 luglio 1994 uscì di casa: non voleva sottostare alle minacce e voleva essere un uomo libero. Quella sera organizzò una cena tra amici che terminò in un locale di Medellin. Lì il giocatore venne riconosciuto ed ebbe una discussione con alcune persone. Uscito dal locale per dirigersi verso la sua macchina, qualcuno gli urlò “Grazie per l’autogol!” e pochi istanti dopo il giocatore fu colpito da una raffica di mitra. Caduto a terra, fu portato in taxi in ospedale dove morì. Si chiudeva nella maniera più tragica la carriera di un calciatore apprezzato dagli addetti ai lavori e pronto a tornare a giocare in Europa dopo la breve esperienza svizzera nella stagione prima di Italia ’90. Ai suoi funerali parteciparono oltre 120mila persone, tra cui anche l’allora Presidente della Repubblica, Gaviria.

Chi aveva ucciso Andrés Escobar ? Si autoaccusò dell’omicidio Humberto Munoz Castro. Il reo confesso fu condannato a 43 anni e mezzo di carcere. Giustizia era fatta? Assolutamente no, perché la pena passò poi a 26 anni e poi a undici: nel 2005 il killer di Andrés Escobar era in libertà.

Nel 2018 successe qualcosa di inaspettato: fu arrestato per traffico internazionale di cocaina Juan Santiago Gallón Henao. Si scoprì che era stato lui il mandante dell’omicidio di Andrés Escobar: questo narcotrafficante non fu mai indagato in quanto lui ed il fratello Pedro avevano corrotto persone importanti all’interno dei tribunali e non furono mai lambiti dalle indagini. I fratelli Gallón Henao erano vicini al “cartello” di Calì e l’eliminazione precoce della Nazionale gli aveva fatto perdere miliardi di dollari in scommesse clandestine.
Tornado ad Andrés Escobar, proprio il Commissario Tecnico Maturana era stato colui che lo aveva fatto debuttare nel calcio professionista: il difensore aveva militato sempre nell’ l’Atlético Nacional (salvo un parentesi negli svizzeri dello Young Boys di Berna l’anno prima del Mondiale italiano), con cui aveva vinto due titoli nazionali, la Coppa Interamericana e la Coppa Libertadores ai rigori contro l’Olimpia Asuncion nel 1989.

Andrés Escobar è sepolto a Medellin e alla sua memoria è gli stato intitolato un centro sportivo a Medellin con all’interno una statua in suo onore.

Fonte foto: footyanalyst.com

Il 13 marzo 2023, Andrés Escobar Saldarriaga avrebbe compiuto 56 anni. Chissà come sarebbe stata la sua carriera calcistica e se mai sarebbe venuto a giocare in Italia, vestendo i colori del Milan, la squadra che (si diceva) fosse fortemente interessata a lui. Non lo sapremo mai. Ma sappiamo una cosa: Andrés Escobar non c’è più, ma giocherà sempre nei cuori di chi lo ha tifato e di chi, invece di ucciderlo in un anonimo parcheggio di Medellin, lo aveva incoraggiato e tirato su di morale per quel dannato autogol al “Rose Bowl”, lo stadio dei pianti di felicità e tristezza di quel Mondiale.
Nel 1945 Carlo Levi scrisse il celebre romanzo ‘’Cristo si è fermato a Eboli’’ dove raccontò la vita rustica e povera degli abitanti di quella parte di Italia mentre, in una sorta di metaverso, nella Colombia degli anni di Andrés Escobar qualcuno avrebbe potuto scrivere tranquillamente “Cristo si è fermato a Medellin” per dimostrare la situazione colombiana del tempo era il triste biglietto da visita del Paese.

I tempi da allora sono cambiati, la Colombia calcistica e quella socio-politica-economica si è scrollata di dosso il suo passato, ma i fatti di quel 2 luglio 1994 a Medellin non dovranno mai essere dimenticati. Come non dovrà mai essere dimenticata la figura di Andrés Escobar Saldarriaga, il “gentiluomo del calcio”. Appena tornato a casa dal Mondiale, Andrés Escobar scrisse un articolo per il quotidiano “Tiempo” in cui espresse il suo pensiero sul fallimento della spedizione mondiale e ponendo l’accento sui successi del calcio colombiano in quegli anni, chiudendo il pezzo con “La vita non finisce qui”. Purtroppo non aveva fatto i conti con il narcotraffico. La maglia numero 2 della Nazionale non fu più assegnata fino al 1998: il primo ad indossarla fu Ivan Ramiro Cordoba.

Articolo a cura di Simone Balocco

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