Scrive La Nazione, «Sono convinta che se Stefano non avesse fatto il calciatore non si sarebbe ammalato o magari questo sarebbe successo in età avanzata. Invece è morto giovane perché ha giocato a calcio…». Dopo le lacrime, il dolore e i silenzi è il tempo della riflessione per la signora Chantal, moglie di Stefano Borgonovo. Ieri l’ex bomber di Como, Fiorentina e Milan, simbolo di un calcio d’epoca e della lotta alla malattia che colpisce in modo subdolo, avrebbe compiuto 59 anni ma nella sua casa di Giussano affiorano solo ricordi, nostalgia e domande senza risposte. A quasi due lustri dalla sua scomparsa dopo la lunga battaglia combattuta contro la Sla (sclerosi laterale amiotrofica) restano i dubbi, rafforzati dagli ultimi tragici eventi.
Signora Chantal, il primo pensiero che le viene in mente nel giorno del compleanno di Stefano?
«Lui era il catalizzatore di tutto. Ripenso alla nostra meravigliosa storia d’amore: io avevo 15 anni e lui 17. Mi vide, mi conquistò e non ci lasciammo più. A 20 anni ero sposata, a 22 mamma. Era dolce, buono, elegante, saggio. Mi manca fisicamente ma è come se fosse ancora qui. Vive con me, mai l’ho tradito».
Immagino che le morti precoci di Mihajlovic e Vialli abbiamo riaperto una ferita per lei.
«Tutto riporta alla mente quei drammatici ricordi. Mi metto dalla parte delle mogli anche se non le conosco. Il nostro percorso è simile, i nostri mariti facevano lo stesso lavoro. E questo mi induce a fare delle riflessioni, anche sulla mia storia».
I lati oscuri della malattia.
«La Sla in particolare ha colpito negli anni troppi calciatori, in età giovanile o da adulti. Lo dicono le statistiche e le ricerche, pure le più recenti. Se Stefano avesse fatto un altro tipo di vita non si sarebbe ammalato, purtroppo il perché e il per come non lo sa nessuno. Sono anni che attendo delle risposte».
Le cartelle cliniche di suo marito l’avevano mai insospettita?
«A dire il vero cartelle cliniche non se ne vedevano. Ai tempi in cui Stefano giocava tutto ciò che riguardava la gestione sanitaria era affidata al medico sociale di cui Stefano aveva fiducia. Io so che mio marito non ha mai preso volontariamente farmaci strani, assumeva qualcosa solo sotto il controllo dello staff sanitario se prescritto».
Perché dopo la morte di Mihajolic e Vialli tanti atleti hanno rotto il muro dell’omertà raccontando le proprie paure?
«Bisognerebbe chiederlo a loro. Una cosa è sicura: erano della stessa generazione di Stefano o di quella successiva, quindi si conoscevano avendo fatto lo stesso lavoro, quello è un ambiente molto ristretto. Certamente hanno riaperto una questione che però vedo si è richiusa altrettanto rapidamente».
C’è la volontà da parte di qualcuno di “insabbiare“ questioni su cui ha indagato la magistratura?
«Di sicuro vedo che dà fastidio parlarne, non so se dipenda più da interessi economici o da altro. Ma è giusto ricordare che tutte le indagini su queste malattie sono state fatte da ricercatori non del mondo del calcio: perché quest’ultimo non approfondisce visto che vengono colpiti tanti atleti che hanno condotto uno stile di vita sano? In fondo il calcio è lo sport che interessa due miliardi di persone al mondo, è la prima disciplina sportiva in Italia e attira tantissimi bambini. Dovrebbe essere un dovere sociale capire e rassicurare, invece non interessa».
Se suo marito fosse qui cosa avrebbe fatto?
«Voleva allenare. Sarebbe rimasto nel mondo del calcio, per lavorare coi bambini e coi ragazzi. Il pallone era la sua vita».
Cosa ha lasciato in eredità?
«Sono tanti i 31 anni passati insieme. Incredibili, profondi, lui si è esposto e si è mostrato. Non era facile ma il suo coraggio resta qualcosa di unico anche se ora di lui non si parla più».
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