Ultimo, qual è il suo primo ricordo?
«La Roma. Abbiamo vinto lo scudetto. Ho solo cinque anni, papà non può portarmi con lui allo stadio; però mi porta a casa una zolla del prato dell’Olimpico, avvolta in una sciarpa giallorossa».
Cosa faceva suo padre?
«Fino al 2010 aveva una società di costruzioni. Non eravamo poveri, il piatto in tavola non è mai mancato, pur vivendo in un quartiere molto popolare, san Basilio, che poi è a un chilometro e mezzo da dove sto adesso. Mi sentivo un privilegiato, ho sempre vissuto questa doppia condizione, e ho imparato molto su entrambi i lati. Continuo a frequentare lo stesso bar, da Stefano. E i miei amici sono sempre gli stessi del parchetto».
Cos’è il parchetto?
«Si chiama parco Paolo Panelli, ma se lo cerca su Google viene fuori “parchetto di Ultimo”. È una cosa che mi rende felice, un giorno mi piacerebbe poterci fare qualcosa. Sono sempre stato un’anima tormentata, quando stavo male passavo i pomeriggi là, con le cuffie e la sigaretta».
Cosa ascoltava nelle cuffie?
«Emozioni di Lucio Battisti; e ogni volta mi chiedevo come mai non riuscivo a fare una canzone così. E Sora Rosa di Venditti: “Che ce ne frega si nun contamo gnente/ se semo sotto li calli della ggente/ Se c’hai un core, tu me poi capì/ se c’hai l’amore, tu me poi seguì”. Quei versi di Antonello erano il modo di resistere alle sofferenze, ai fallimenti».
Quali fallimenti?
«Mi sono presentato tre volte ad Amici, due volte a X Factor, due volte a Sanremo giovani, al tempo di Carlo Conti, e non mi hanno mai preso».
Sette rifiuti.
«Doveva andare così. Eppure cantavo le canzoni che poi sono piaciute a migliaia di ragazzi: Sogni appesi, Giusy, Piccola stella».
Dica pure milioni. Lei ha riempito il Circo Massimo e più volte l’Olimpico, San Siro, il Maradona.
«Conosco tanti artisti bravi che non sono emersi. Io sono stato fortunato a riuscire al momento giusto».
Quando comincia la musica per lei?
«A otto anni. Pianoforte. L’ho studiato per dieci anni, all’inizio con il maestro Santi Scarcella, che saluto. Mio papà Sandro mi spingeva su una strada più protetta, ma mia mamma Anna mi ha sempre incoraggiato. È una sorcina persa, ascoltavamo Renato Zero tutto il giorno. C’è un verso che mi è rimasto impresso: sana ingenuità. Io sono così: sanamente ingenuo».
L’ha poi conosciuto Renato Zero?
«Sì. Quando il fratello di mamma, zio Ciro, ha avuto un grave problema di salute, Renato gli è stato vicino anche se non lo conosceva: andò a trovarlo in ospedale, citofonava a casa per sapere come andava. Così, una delle volte che ho provato ad andare a Sanremo Giovani, ho fatto chiedere a Renato se voleva sentire la canzone».
E lui?
«Mi mandò un sms bellissimo: “Io non posso influire sulla commissione, ma anche se potessi non lo farei. È come quando vedi in vetrina un vestito bellissimo, e lo vuoi a tutti i costi. Con il tempo troverai le risposte”. Non era banale che un grande come lui si occupasse di un pischello come me. Poi con Renato sono salito sul palco. Mi ha presentato così: “Il mio nipotino gode della stessa umiltà dello zio”. In effetti, lui Zero e io Ultimo, siamo un po’ parenti».
Lei in realtà si chiama Niccolò Moriconi. Perché ha scelto di chiamarsi Ultimo?
«Con gli amici del parchetto ci chiamavamo Les Miserables, come il romanzo di Victor Hugo, l’avevamo anche scritto per terra con lo spray. La nostra chat su WhatsApp si chiama i Miserabili. Avevo pensato a Miserabile anche come nome d’arte; ma suonava davvero male. Ultimo invece mi è parso subito perfetto. Un biglietto da visita dettagliatissimo».
In una canzone lei dice di voler usare la sua vita «per crearne una collettiva». Cosa intende?
«Nei concerti guardo le persone negli occhi. Possono avere cinque anni o settanta; ma hanno gli occhi lucidi. Sono assenti e presenti. Sono da un’altra parte, ma sono lì. Ho sempre cercato e cerco la coesione tra generazioni diverse, è il gol della mia vita».
Nel docufilm che sta per uscire, «Vivo coi sogni appesi», si vede lei ragazzino che canta al mercato di Testaccio, davanti a un pubblico non enorme… Come andò?
«Fu un disastro. Mi sembra di sentire ancora l’odore del pesce. Tre file con cinque sedie, quasi tutte vuote. Ricordo una signora di settant’anni che aveva il banco al mercato, due ragazzini di passaggio, e cinque amici che erano lì per me. Le assicuro che è molto più difficile cantare per otto persone che per ottantamila. Chiedevo: potete venire qui davanti? Ma non si muoveva nessuno. Così ho suonato da seduto, per avere il pubblico all’altezza dei miei occhi».
Nel film la si vede anche negli stadi; e sembra che non abbia fatto altro nella vita.
«Il palco è l’unico posto in cui mi sento al sicuro. Ma ogni volta prima di salirci sono convinto di stare per svenire».
È ipocondriaco?
«Sì, nel senso che vorrei avere tutto sotto controllo; ma nessuno può avere tutto sotto controllo. È cominciato quando a sedici anni, per preparare un esame di ammissione a un liceo, mi sono fatto un’intera caffettiera e mi è venuta la tachicardia. Mi sottopongo a due, tre visite alla settimana. Devo ricordarmi di bere più acqua, perché l’ecografia indica che sono sempre disidratato. Ora da tredici giorni ho smesso di fumare. Ma mi sa che ricomincio. So che è sbagliato, ma senza è tremendo».
Ha provato anche le droghe?
«Tutte (Ultimo sorride). Scherzo. Ogni tanto la sera una canna me la faccio, soprattutto in California dove è legale. Mi rilassa. Non dico sia giusto, è meglio non farlo, così come è meglio non bere coca-cola e non mangiare hamburger da McDonald’s. Non ho il mito della marijuana, ma credo che andrebbe legalizzata».
È vero che a sua mamma scrive: tra due anni muoio?
«Glielo dico da tanto tempo ormai… Sto per perdere una scommessa con un medico mio amico: “Se superi i 27 anni, mi porti a cena”. A gennaio ne compio 28, mi sa che dovrò pagare io».
Al liceo è stato bocciato?
«Due volte. Non me ne vanto, mi è dispiaciuto e mi dispiace tuttora. Non avevo capito che quando fai parte di un sistema devi accettarne le regole. Invece andavo a scuola e dopo la prima ora me ne andavo. Avevo un professore di matematica, Mariano, che mi diceva di continuo: Moriconi, con la musica non si campa… Poi ho scoperto che da ragazzo aveva inciso un disco».
Lei giocava a calcio?
«Prima nell’Achillea, una squadra del quartiere Talenti, poi alla Roma Soccer, a Ponte Mammolo. Pensavo di essere forte; invece ero una pippa. Nel calcio serve innanzitutto costanza. E io sono il massimo dell’incostanza».
Nel film parla di anche di uno psichiatra.
«Ho frequentato a lungo uno psichiatra e una psicoterapeuta, Raffaella, le sono molto affezionato. Non c’è nulla di male ad avere un problema; il vero problema è negare di averne. Parli a un medico, ma in realtà stai parlando a te stesso. È importante parlarsi, conoscersi, capire cosa c’è dietro a quello che siamo».
Come ha conosciuto Venditti?
«Dieci anni fa, ho ancora la foto che ci facemmo insieme. Grazie a un finanziere amico di famiglia riuscii a intrufolarmi nel camerino: “Te prego, Antone’, senti ’sto disco…”. Lo rividi a Sanremo nel 2019, lui era ospite, io portavo “I tuoi particolari”, ci siamo trovati a fumare insieme: “Antone’ te ricordi de me?”».
Si ricordava?
«Ovviamente no. Ma per me è stato importante che un grande cantautore avesse accettato di ascoltare la mia musica. Ci sentiamo spesso. Prima di tornare a Sanremo gli ho fatto ascoltare due canzoni inedite: una l’ha scartata, dell’altra mi ha detto: è un capolavoro. Era “Alba”. Una canzone senza ritornello. Non proprio da Sanremo. Ma aveva emozionato Venditti».
«I tuoi particolari» aveva trionfato nel voto popolare, ma la sala stampa fece vincere Mahmood, e lei ci rimase male.
«Sono tornato quest’anno a Sanremo, proprio perché l’avevo lasciato in un modo che non mi era piaciuto, e volevo riappacificarmi con il festival. Non ne avevo certo bisogno per rialzarmi, ero reduce dal Circo Massimo e da quindici stadi, ma volevo esprimere la mia riconoscenza per quel palco e per quello che c’è dietro, per tutto quello che rappresenta».
E si è beccato i gesti dell’ombrello. Come ha preso l’esultanza di parte della sala stampa all’annuncio che non sarebbe salito sul podio?
«Ci sono rimasto male. Soprattutto per loro. Non sono una vittima, me te magno. Fai quel che cavolo vuoi, me ne sbatto, vorrei solo sapere: perché? Perché sei contento se Ultimo arriva quarto? Cosa c’è nella tua testa? Perché esulti, perché mi schernisci con quei gesti?».
Che idea si è fatto?
«Forse perché non sono passato da voi giornalisti. Perché sono arrivato direttamente al pubblico. Perché faccio malvolentieri la promozione dei dischi, questa forse è la prima vera intervista della mia vita, anche perché stiamo parlando da due ore e non mi sembra di star facendo un’intervista. Forse perché vivo per i fatti miei, di carattere sono schivo, solitario, e questa mia lontananza viene interpretata come se me la tirassi. Forse perché ho iniziato con un’etichetta indipendente, poi quando ho visto che il mondo della musica è pieno di personaggi squallidi che si approfittano degli artisti alle prime armi mi sono fatto un’etichetta mia, la Ultimo Records».
Di chi sta parlando?
«Conosco altri giovani nelle mie stesse condizioni: tendi a fidarti, trovi persone che consideri quasi come padri, e solo dopo ti accorgi di aver sbagliato. Per fortuna ho trovato un manager di grande valore e onestà come Max Brigante, e un organizzatore come Clemente Zard, il figlio di David».
Lei è molto amato.
«Sì, tantissimo, ma a volte sono anche bersaglio di un odio senza motivo. Però poi mi do i pizzichi e mi dico: svegliati, sei fortunato, vivi di musica; ed essere Ultimo non significa aver perso».
Con Mahmood che rapporto ha?
«Non abbiamo avuto modo di conoscerci perché ognuno si fa i cavoli suoi, ma non ho nulla contro di lui. Quel momento ci ha visti contrapposti, ma era una diatriba creata da altri».
Ha amici tra i colleghi?
«Fabrizio Moro. Quando nel maggio 2016 mi dissero che gli era piaciuto il mio primo singolo, “Chiave”, e mi invitava ad aprire un suo concerto, uscii per strada, ricordo che pioveva, fu una grande emozione».
Ed Sheeran?
«Con Jacqueline e i miei amici Felix e Gianmarco gli siamo entrati in camerino. È stato molto disponibile, parla un po’ italiano. Una volta mi ha chiamato con Stefano Domenicali, il capo della Formula Uno, per commentare l’ultimo gran premio…».
Goffredo Bettini, grande vecchio della sinistra, ha detto: «Un tempo uno come Ultimo saremmo andati a cercarlo, come negli anni 70 abbiamo fatto con i cantautori».
«Bettini non deve avere rimpianti. Se un partito, qualunque sia, mi avesse cercato, non mi sarei fatto trovare».
Cosa pensa di Giorgia Meloni?
«Non voglio dare giudizi sui leader politici».
Salvini la difese dopo il Sanremo 2019.
«E qualcuno disse che ero schierato con lui. Nulla di tutto questo».
Mi dica almeno se è di destra o di sinistra.
«A me interessano le emozioni, i sentimenti. Poi certo mi interessa anche quel che succede nel mondo. Seguo i talk-show, guardo Propaganda, non conosco Zoro ma mi è simpatico. Faccio robe da vecchio: magari Jacqueline o mamma vogliono vedere un film su Netflix, e io impongo di vedere Mentana. So bene che i confini li ha inventati l’uomo, che noi e i migranti siamo una cosa sola. So bene che dobbiamo batterci contro il cambio climatico, prima che produca altre catastrofi. Ma non mi sembrano cose di destra o di sinistra».
Sono celebri i suoi anelli.
«L’unico che porto sempre è questo: era di mio nonno Raffaele, detto Gigetto, di Avellino. La famiglia di mia mamma è campana, Napoli è la mia seconda città, parlo anche un po’ il dialetto. Ho ancora la nonna paterna, Gina: ha 95 anni, abbiamo un bellissimo rapporto».
Qual è stato il primo tatuaggio?
«Questo sulla spalla destra: il microfono, le cuffie, la tastiera, la scritta “All I need is music”, lo spartito con tre note. Sono tre la. È l’attacco di “Vivere” di Vasco».
Ha conosciuto anche Vasco?
«Abbiamo passato insieme una serata a Los Angeles, a casa sua, ed è stato bellissimo. Strano, quasi irreale. Vasco per me è una sorta di entità. È come se non facesse parte di noi comuni mortali, nonostante sia estremamente comune e mortale. Anch’io, come chi lo ascolta e va ai suoi concerti, sono innamorato di Vasco artista, e per me al mondo non c’è altro: perché la persona ha sempre dei limiti, l’artista non li ha».
L’ha delusa?
«No. Ma il Vasco artista mi basta e mi avanza; il resto non mi interessa. Io stesso sono più sincero nelle canzoni che nella vita. Chi conosce le mie canzoni mi conosce più del mio migliore amico».
È vero che si fidanzò con Claudia, la più bella della classe?
«Chi le ha detto questo? Le ho dedicato le prime canzoni, ma senza trovare il coraggio di dirglielo. Non era la mia fidanzata».
Come fu la sua prima volta?
«Non è bello dirlo, ma non fu importante. Quasi non la ricordo».
Nel film compare un’ex fidanzata, Federica.
«Con lei fu speciale, in una canzone ricordo il 22 settembre, il giorno in cui la portai sulla ruota di Londra…».
Ora sta con Jacqueline, la figlia di Heather Parisi. Come vi siete incontrati?
«Ho visto la foto di una giacca disegnata da lei, con una pezza a forma di chitarra, e le ho scritto: “Vuoi essere la chitarrista del mio prossimo tour?”. Ci siamo dati appuntamento a Trastevere, il quartiere dove è nata. Sono arrivato con uno zainetto e quattro birre. Abbiamo parlato tutta la sera, era tanto che non passavo una sera normale. Il giorno dopo lei partiva per l’America».
E poi?
«Ci eravamo innamorati, senza esserci mai dati un bacio. Ha una naturalezza, una solarità, un modo di essere invisibile ai più. Volevo capire cosa si nascondeva dietro di lei. Così appena è stato possibile l’ho raggiunta in America».
Come ricorda il lockdown?
«Non passava mai; e sembra passato in un lampo. Mi viene da dire “un anno fa”, e penso a cose accadute nel 2019».
Dove l’ha trascorso?
«In una casa in Umbria, a comporre canzoni. Il disco doveva chiamarsi “Il bambino che contava le stelle”, invece l’ho chiamato “Solo”, in copertina le mie mani attorno al mio collo. Alcune delle canzoni che ho scritto allora non le ha ancora sentite nessuno. Del resto anche “Piccola stella”, che ho composto da ragazzo, non l’ho messa nel primo disco: mi pareva banale, una fiaba d’amore, mentre volevo fare una cosa più complessa, da cantautore. Idem nel secondo. Poi nel terzo disco l’ho messa, e oggi è una delle canzoni che il pubblico ama di più».
Cosa trova a Los Angeles?
«Mi piace correre e camminare nel verde, tra le colline e il mare. Ma la mia città perfetta è Londra: bella con un velo di malinconia, imponente e fragile. Poi certo a Roma sto veramente bene. Mi basta. Ho tatuato il Colosseo su un avambraccio e sul collo Fateme canta’».
Milano?
«Ci vado poco. Ma San Siro è un’istituzione. Vorrei che non lo buttassero giù».
Canterà in America?
«Semmai in Spagna, dove Ultimo si dice allo stesso modo» (Niccolò sorride).
Crede in Dio?
«Sono un po’ bipolare, perché sono dell’acquario, sognatore, con ascendente capricorno, piedi per terra. La mia metà acquario pensa che siamo tutti collegati, che le nostre cellule sono fatte a immagine e somiglianza dell’universo. La mia metà capricorno pensa che siamo animali un po’ più intelligenti, capitati qui per caso, e in mezzo c’è il meglio che riusciamo a fare».
Come immagina l’aldilà?
«Giallorosso».
Fonte: Corriere della sera.
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