Rivera: “Lodetti mi ritenne responsabile del suo addio al Milan ma io non avevo voce in capitolo”

Scrive Gazzetta, formidabili quegli anni. Formidabile quel primo Milan dei miracoli. Formidabile quella coppia in cui i compiti erano distinti ma ognuno sapeva cosa fare. Certo era un altro calcio, talmente lontano che si fa fatica a ricordarselo anche per chi in qualche modo l’ha vissuto, tifato, attraversato. Lo dicevano per primi i numeri che si portavano sulla schiena e che potevi citare in un attimo, l’8 di Lodetti e il 10 di Rivera li conoscevano tutti a memoria. Come a memoria si conoscevano i ruoli, i compiti, i territori che i due, in quel Milan, dovevano occupare. E l’abitudine a vederli e a vederli insieme era talmente forte e radicata, e non solo fra i tifosi del Milan, che quando a un certo punto la storia comunque si spezzò fu davvero qualcosa di clamoroso, una rottura in una carriera che Lodetti visse malissimo. Ma prima ci furono tanti belli, e grandi momenti. Vissuti insieme.

“Abbiamo passato tanto tempo e tanto calcio insieme. E insieme ci siamo trovati bene”. Gianni Rivera apprende della morte di Giovanni Lodetti e si capisce che per lui si tratta di una notizia che colpisce, una di quelle che spingono sull’interruttore della memoria. “C’era un bel rapporto fra di noi”, dice ancora il Pallone d’Oro di quel primo Milan dei miracoli. Nove anni insieme, un percorso lungo, comune, due volte la Coppa dei Campioni, una squadra in cui il genio di Rivera era protetto dal grande lavoro di Lodetti. E poi mille battaglie dalla stessa parte, perché Lodetti c’era e Rivera pure quel giorno della caccia all’uomo di Buenos Aires nella famosa finale della Coppa Intercontinentale con gli argentini dell’Estudiantes del 1969.

“Lavorava in quella zona di campo sulla destra con il mediano e l’ala”, ricorda ancora Rivera. In effetti, questo verbo, “lavorare”, si usa poco nel calcio, sembra lontano, ma Rivera lo usa istintivamente parlando di quel lavoro del compagno di squadra e del suo dialogo con il mediano e l’ala destra. “Il campo è quello, non ci facevamo ombra”. Quella storia a un certo punto visse una sorta di corto circuito, un’interruzione imprevista. L’anno di questo bivio fu il 1970. E sì, perché in quella stagione successero due cose: Lodetti fu l’ultima rinuncia di commissario tecnico Ferruccio Valcareggi, il ventitreesimo uomo, l’ultimo sacrificato per arrivare alla scelta dei 22 azzurri che poi andarono in Messico dopo l’infortunio di Anastasi: lui a casa, Boninsegna e Prati convocati. “Sì, lo ricordo, certo che lo ricordo”. Rivera, invece, andò e successe quello che successe: Italia-Germania 4-3 e poi il meccanismo della staffetta che si inceppa sul più bello e proprio Rivera che non entra al posto di Mazzola, nel momento in cui il copione lo prevedeva, ma soltanto più tardi, sostituendo Boninsegna, quando il Brasile ci ha già travolto e poi arriveranno i pomodori dei contestatori delusi al ritorno a Fiumicino.

In realtà però in quelle settimane successe un’altra cosa: la storia di Lodetti al Milan finì. “Lui ci rimase un po’ male e in qualche modo mi ritenne anche responsabile. Come giocatore più rappresentativo, questo pensava, aveva sperato in un mio intervento. Voleva restare al Milan, ci teneva. Ma quella era una scelta della società in cui io non potevo avere voce in capitolo”. E la storia, la lunga storia di quel Milan, finì. Rivera restò in rossonero, Lodetti divenne blucerchiato e, qualche anno dopo, ritrovò i colori di una volta andando al Foggia. Dissero basta a un anno di distanza, Lodetti staccò nel 1978, Rivera la stagione dopo. Ma quel “ci trovavamo bene” era ormai finito da tempo.

Lisa Grelloni

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