Mariangela Presicce, l’arbitra modella: “Offese sugli spalti anche da donne ma non mollerò. Mi aggiorno senza sosta”
Scrive il Corriere del Mezzogiorno, grinta in campo e leggiadria in passerella: per Mariangela Presicce, 20 anni, salentina di Nardò, calcio e sfilate d’alta moda non sono un bivio, ma due sentieri che, dopo essersi incrociati, ora procedono in parallelo. L’uno non esclude l’altro e viceversa, perché Mariangela non vuole lasciare nulla di intentato, non per paura di rimorsi futuri, ma perché, dice, «sono decisa a raggiungere i sogni di una vita, anche se spesso sul rettangolo di gioco, per un arbitro donna è tutt’altro che facile».
Cosa le rende difficile arbitrare sui campi di calcio?
«Gli insulti, i pregiudizi per il solo fatto di essere una ragazza. Cose che, secondo me, oggi non sono più ammissibili. Devi corazzarti e fare il tuo dovere nonostante tutto se vuoi andare avanti. Ma molti ragazzi e ragazze rinunciano proprio perché non riescono a superare il trauma di sentirsi piovere addosso frasi ingiuriose, denigratorie. Roba pesante».
Espressioni che tradiscono un’anacronistica impronta patriarcale di una certa parte della nostra società?
«Sì, penso proprio di sì. C’è, purtroppo, chi non si vuole rendere conto che il mondo è cambiato e la cosa più triste sta nel fatto che talvolta sono anche le donne a dimostrare di non avere ancora raggiunto maturità culturale. La consapevolezza che il loro ruolo non può più essere solo quello di restare relegate in casa, a badare alle faccende domestiche».
In quali categorie arbitra?
«Nelle Juniores, sui campi della Puglia, dove, ahimè, se ne vedono e se ne sentono di tutti i colori dagli spalti».
Qual è la cosa più brutta che le è capitata?
«Una madre di famiglia mi ha urlato dicendomi che dovevo andare a sbrigare le faccende di casa, anziché arbitrare una partita di calcio. Ma io non mi sono demoralizzata. Ho continuato a svolgere il mio compito, per il quale mi preparo fisicamente con grande scrupolo, studio e mi aggiorno sulle regole del calcio senza sosta».
Quando è nata la sua passione per la giacchetta da direttore di gara?
«Molto presto, da bambina. Mio padre era dirigente di una squadra di calcio e mi portava con sé alle partite. Io non ero tanto attratta da ciò che facevano i calciatori in campo, ma dall’arbitro. Mi intrigava la sua autorevolezza, il suo piglio deciso nel saper dirigere la partita, nell’interrompere il gioco quando necessario, di redarguire, di far rispettare l’ordine sul terreno di gioco e soprattutto di essere maestro di lealtà sportiva».
È disillusa per le esperienze negative?
«Non fanno piacere, ma servono per rafforzare il carattere. Non saranno certo gli insulti che piovono dagli spalti a farmi mollare».
Le arrivano messaggi poco piacevoli anche via social?
«Purtroppo i social contribuiscono a imbarbarire il pensiero e le azioni delle persone. Non sono uno strumento che mi piace. E poi mi ha colpito molto l’episodio accaduto alla collega spagnola rimasta a terra sanguinante dopo essersi scontrata con un cameramen che non doveva trovarsi in mezzo al campo, dov’è avvenuto l’impatto. Anche per questo ho deciso di uscire allo scoperto per dire che non si deve mollare».
Sull’altro versante della sua vita c’è la moda.
«Sì, sfilo per le grandi griffe. Sono reduce da Milano Fashion Week, dove ho indossato abiti di alta moda e prossimamente sarò di nuovo in passerella a Budapest. La giubba da arbitro e l’abito firmato da esibire nelle sfilate possono coesistere. Basta volerlo».