di Stefano Borgi
Premesso che un punto contro il Napoli potrebbe ancora bastare, io stasera non ho capito la Fiorentina. Non ho capito l’approccio, la mentalità, la prospettiva… non l’ho capito neppure dopo che aveva chiuso in vantaggio il primo tempo. Allora: arriva un Napoli, ancora campione d’Italia certo, privo però di Oshimen, Zelinski, Mario Rui, con un allenatore a termine, con una situazione societaria (a dir poco) precaria, con I tifosi in rivolta, con un solo punto all’attivo nelle ultime cinque partite. Dall’altra parte una squadra (quella viola) sopra i partenopei di due punti, in vantaggio negli scontri diretti, a 12 giorni (e dico 12!) dalla finale di Atene, alla quale basta vincere per agguantare matematicamente l’ottavo posto. E di conseguenza la prossima Conference League. E invece che succede? Italiano manda in campo l’undici migliore, con i tre tenori (quattro con Dodò), che toppa completamente il primo quarto d’ora (e infatti, come spesso capita, andiamo in svantaggio), recupera il risultato con due prodezze personali, e non contento… comincia la ripresa come aveva iniziato: molle, indolente, consegnata all’avversario. Ed infatti ben presto arriva il 2-2, rischiando a più riprese di subire il terzo. Ma non solo: i viola subiscono il primo gol di Rahmani in modo palesemente irregolare e che succede? Anzi, non succede? Nessuno protesta, tanto meno Quarta che (si vede chiaramente) subisce una spinta dal centrale albanese. Perché l’argentino (e con lui tutta la squadra) non hanno protestato? L’apatia che si era portato dagli spogliatoi glielo ha impedito? Non capiamo. Allo stesso modo, nel finale, la squadra non spinge, non aggredisce, non cerca la vittoria. Eppure i tre punti di stasera avrebbero permesso di andare a Cagliari, schierare la primavera e salvaguardare i titolari, oltre ad affrontare in costume da bagno il recupero di Bergamo. Continuiamo a non capire. Adesso, invece, per andare in Europa bisogna fare un punto contro il Cagliari che si gioca la salvezza, oppure contro l’Atalanta che si giocherà la Champions. Col rischio di infortuni, contrattempi, spreco di energie fisiche e psicofisiche. Incomprensibile. A meno che qualcuno in società sia già sicuro di battere l’Olympiakos e conquistare l’Europa League… beati loro. Noi, molto meno. Stasera, contro un Napoli fantasma, rassegnato, demotivato, servivano i tre punti. E invece…
CARA CURVA FIESOLE: permettetemi un ricordo ed una lacrima. Le prime partite (1976) le ho viste in Ferrovia (secondo mio padre all’ombra si vedeva meglio), e poi non correvamo il rischio di finire in mezzo agli ultras: meglio scansarli quelli. Dal 1979 ho respirato in Fiesole i fumogeni, aspettando le reti di Sella e Pagliari. Poi fino al 1996, sole, freddo, acqua, e gol visti col binocolo (letteralmente). Dal 1996, dopo le due coppe (Italia e Supercoppa) lo sbarco in Maratona (ricordo ancora l’appostamento davanti alla Cassa di Risparmio di viale Matteotti alla 4 di mattina per prendere i posti centrali). Questo fino al 2001 quando, intuendo l’imminente scatafascio, salto a piè pari la stagione del fallimento per poi tornare nella cara, vecchia, curva Fiesole… l’anno della C2. Nel 2003, in B, il ritorno in Maratona fino al 2005, quando ho cominciato a fare il giornalista (o giornalaio che dir si voglia) e godere della tribuna stampa. Ma quello, oltre a non essere una professione (sono, e sono ancora, un semplice pubblicista) non è tifo, non è passione, anche se al 4° gol di Pepito contro la Juventus sono planato (stile Jim Morrison) sui tifosi appena sotto di me. Questo per dire che, pur non avendo mai fatto parte degli Ultras e neppure del Collettivo, la Fiesole è stata per me una scuola di vita, una tentazione irresistibile, un luogo dove crescere, condividere e gioire. Pur senza vincere praticamente nulla. Stasera ti ho vista per l’ultima volta, cara curva… sappi che non ti dimenticherò.
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