Scrive CalcioeFinanza, sul campo non c’è niente da dire: la Premier League è senza ombra di dubbio il miglior campionato nazionale al mondo sotto qualsiasi punto di vista. Nessun’altra lega calcistica può vantare un ammontare di ricavi da tenere testa ai multimilionari sport USA e nemmeno il grado di competitività interna del torneo britannico. Non solo, ma anche in termini di numero di spettatori non c’è partita visto che quello inglese domina la graduatoria dei tornei con il maggior numero di paganti in Europa e che alle sue spalle c’è la Championship, ovvero la seconda divisione di Sua Maestà, che precede Bundesliga e Serie A nell’ordine (anche grazie al fatto di avere 24 squadre quindi un maggior numero di partite). Come a dire qualsiasi club venga promosso porta comunque tifosi e spettatori negli stadi.
Una volta dato a Cesare quel che è di Cesare, però, non si può non notare come la Premier, per quanto spettacolare e divertente, stia andando incontro problemi crescenti da un punto di vista economico e normativo. Sono nodi che sicuramente non offuscheranno in maniera immediata l’allure di questo torneo nel mondo, ma che nel Regno Unito stanno sollevando molte polemiche.
In un precedente appuntamento di questo editoriale, si era messo in luce come anche Oltremanica non fosse tutto oro quello che luccica, concentrando il focus sui numeri di bilanci delle squadre di Premier. Nello specifico si evidenziò il numero record delle entrate aggregate (il fatturato complessivo dei 20 club nel 2022/23 ha supera la cifra monstre di otto miliardi di euro, un vero e proprio record nel calcio) e l’EBITDA aggregato positivo per 1,7 miliardi. D’altra parte però emergeva chiaramente come l’EBIT aggregato sia stato negativo per 603 milioni di euro e questo ha portato a un risultato netto complessivo in perdita per 827,2 milioni di euro. Con il contributo positivo di soli quattro club: Brighton, Manchester City, Bournemouth e Brentford.
Questa instabilità nei bilanci, come spesso avviene, non è soltanto quantitativa e non a caso sta evidenziando ora un numero di problemi ad essa connessi, per lo più legati al Fair Play finanziario interno inglese (la cui norma principale è quella di consentono alle società un deficit massimo di 105 milioni di sterline in un ciclo triennale).
Il caso più eclatante in questo quadro è quello del Manchester City, la società campione del mondo e d’Inghilterra, contro la quale è appena iniziato il processo per aver violato per ben 115 volte questo sistema di norme. Le imputazioni sono legate sia ai conti sia al fatto di non aver fornito informazioni finanziarie accurate, in particolare per quanto riguarda le entrate (compresi i ricavi da sponsorizzazioni), le sue parti correlate e i suoi costi operativi. In pratica, tra gli altri motivi della contesa, un punto non di secondaria importanza sarà capire se ci siano stati da parte degli emiri (che sono i proprietari del club) dei finanziamenti al City tramite sponsorizzazioni di comodo. In questo quadro non va scordato che nel 2021 era emerso che una società sponsor dei Citizens non esisteva nemmeno.
L’iter processuale dovrebbe concludersi tra fine 2024 e inizio 2025 e sarà importante capirne l’esito. Perché in qualche modo questa vertenza non coinvolge soltanto il club di proprietà degli sceicchi ma praticamente l’intero calcio inglese. Negli ultimi 13 anni il City ha vinto otto campionati (di cui sei nelle ultime otto stagioni) e, anche per la guida tecnica di una icona come Pep Guardiola, la società è divenuta una sorta di simbolo della Premier degli ultimi anni. Un po’ come lo erano i cugini dello United negli anni di Sir Alex Ferguson. È evidente quindi che qualora gli Sky Blues dovessero uscire colpevoli da questo processo (o in qualche modo colpiti da una pena esemplare), sarebbe l’immagine stessa della Premier a esserne devastata nelle sue fondamenta. Per questo, tra gli osservatori più maliziosi, si pensa che si giungerà a pene magari severe, ma sopportabili per un club dalle spalle larghe come il City. Onde evitare di non rivoluzionare e non screditare un sistema che porta grandi benefici al Regno Unito sia in termini di indotto economico sia quelli delle entrate erariali e di tasse sul lavoro dei calciatori più prestigiosi.
Per altro il caso dei Citizens non è isolato visto che l’Everton e il Nottingham Forest sono già stati penalizzati nella scorsa stagione per le violazioni delle norme sulla perdita massima consentita. Nel dettaglio il Nottingham ha subito una decurtazione di quattro punti in classifica e il club di Liverpool di otto punti. E anche in questo quadro c’è chi ha sottolineato come siano state comminate pene sopportabili per quei club, per quanto abbiano corso il pericolo di non salvarsi, in particolare il Nottingham che ha chiuso a +6 sul terzultimo posto nella passata stagione.
Non solo, ma a conferma che i problemi sono numerosi e variegati ma che si cerca sempre una soluzione tra il bastone e la carota, sempre legato al tema del fair play finanziario c’è il caso del Chelsea. I Blues hanno cercato una strada per aggirare le norme cercando di vendere due hotel di loro proprietà per oltre 90 milioni di euro una società collegata al patron Todd Boehly riducendo così il rosso a bilancio da 197 a 106 milioni di euro. Inizialmente la Premier League però non ha dato il via libera ponendo il club a rischio di sanzioni. Tuttavia, la vendita è stata in seguita approvata dalla lega inglese, secondo quella che è definita una «valutazione di mercato equa» ai sensi delle regole di transazione tra parti correlate della lega.
Insomma è come se i vari portatori di interesse del sistema calcistico inglese (e non si parla soltanto di stakeholder appartenenti al mondo del pallone in senso stretto) sappiano di dover monitorare sempre meglio questo sport e il suo immenso valore economico ma siano anche consci che, visto le spese crescenti e le entrate da diritti televisivi che sembrano aver terminato la loro fase di continua ascesa, la questione debba essere trattata con estrema cura onde evitare di minare il gioco e la sua leadership mondiale. È ovviamente un crinale stretto sul quale muoversi e che non è sicuro porti sempre alle decisioni migliori.
D’altronde sono gli stessi club a sapere che qualcosa debba essere migliorato. In primavera per esempio la Premier League aveva pensato di introdurre un sistema di tetto salariale, basato su quanto guadagna il club che incassa di meno dalla vendita dei diritti televisivi. La prima votazione non aveva ottenuto l’unanimità con 16 voti a favore sui 20 club presenti (Manchester City, Manchester United e Aston Villa avevano votato contro mentre il Chelsea si era astenuto) ma si era comunque andati avanti con la decisione che la mozione si sarebbe discussa all’Assemblea Generale Annuale in giugno.
Assemblea in cui le società hanno deciso di sperimentare il tetto salariale su base non vincolante, in particolare attraverso due norme: la prima regola le spese al massimo all’85% dei ricavi calcistici di un club, la seconda invece pone il tetto ad un multiplo rispetto al club che incassa meno dai diritti tv. Una sperimentazione che permetterà alla lega e ai club di «valutare completamente il sistema, inclusa l’operatività delle nuove normative finanziarie equivalenti della UEFA, e di completare la consultazione con tutte le parti interessate», aveva spiegato la Premier League, ma di fatto depotenziando quella che era l’idea iniziale della lega.
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