Ranieri: “Vediamo se arriva una chiamata per una Nazionale, non quella italiana”
Claudio Ranieri la scorsa stagione ha lasciato in lacrime il Cagliari. Oggi si è raccontato a il Corriere della Sera:
Qual era il suo sogno di bambino? «L’ho realizzato: fare il calciatore».
E, magari, da grande l’allenatore? «A quello sinceramente non avevo pensato. Quando Gianni Di Marzio, che mi aveva avuto come difensore prima a Catanzaro e poi a Catania, mi ha suggerito la panchina della Vigor Lamezia, non ero troppo convinto. E invece…».
Invece si è appassionato. «Mi volevano allenatore-giocatore ma ho subito messo le cose in chiaro: se dovevo cominciare una nuova vita, era inutile aspettare…».
Facciamo un passo indietro. Suo papà aveva una macelleria nel cuore di Testaccio. «Sì, ero l’ultimo di quattro fratelli e a volte, come tutti, davo una mano in negozio. Ma meno degli altri. Passavo le giornate all’oratorio che, a quei tempi, sostituiva la scuola calcio. Messa, pane e marmellata e poi finalmente il pallone. Giocavo anche a basket e pallavolo, tutto tranne il tennis, che non mi piaceva. Poi sono entrato nella Dodicesimo giallorosso, una squadretta sovvenzionata dalla Roma. Ero bravino, facevo l’attaccante e a un provino il mago Herrera mi scelse per la Roma, la squadra del mio cuore».
Ma non è stato facile… «Per niente. Ho cominciato con la Primavera ma nelle partitelle del giovedì, contro due difensori come Bet e Santarini, non la vedevo mai. Così ho deciso di mettermi in difesa ed è stata la mia fortuna».
La sua fortuna è stata anche Di Marzio. «Mi ha voluto a Catanzaro, un porto felice. Ci sono stato otto anni, è la città di mia moglie Rosanna e anche mia figlia Claudia è nata lì. Ho una casa a Copanello e ogni estate ci ritroviamo con i miei vecchi compagni, che sono diventati gli amici di una vita: appena ci rivediamo scatta la magia di un tempo. Siamo un bel gruppo: Silipo, Nicoletti, Spelta, Braga, Arbitrio, Novembre, Vichi e Pellizzaro. Il più famoso era Palanca. Per la verità il merito di questa intesa che dura nel tempo è delle nostre mogli: sono loro che si frequentavano già quando giocavamo. Come sempre nella vita i mariti vanno a ruota…».
Come ha conosciuto Rosanna? «Era figlia di un giornalista e la migliore amica della fidanzata del mio capitano, Banelli, un altro del gruppo. Tutto è successo in fretta e siamo ancora qui, vicino ai cinquant’anni di matrimonio. Rosanna c’è sempre stata, nei momenti belli e in quelli difficili, mi ha seguito in ogni avventura, è la regina dei traslochi. Allo stadio però viene di rado, dice che soffre troppo».
Prima del Catanzaro ha esordito nella Roma, che poi ha allenato per due volte.
«Mazzone, un altro dei miei maestri, mi diceva che se non si allena la Roma non si è allenatori. Quando mi hanno chiamato, la prima volta, ci ho pensato parecchio. Temevo di fallire».
Alla fine ha quasi vinto uno scudetto. Forse, quel campionato, perso in volata con l’Inter di Mourinho, è il cruccio più grande della sua carriera.
«Sino a un certo punto. Sono pratico e fatalista. È vero che, per come si erano messe le cose, potevamo farcela. Però nessuno ricorda mai che sono arrivato a campionato iniziato e ho fatto più punti dell’Inter. Eravamo in testa, ma abbiamo perso in casa 2-1 con la Samp, una partita che doveva finire 3-0. Il calcio è così. Della Roma mi resta il cuore gonfio della mia gioia di essere romanista».
La prima squadra vera che ha allenato è stata il Cagliari. Ed è stata anche l’ultima…
«Cagliari è tutto per me, il mio posto nel mondo. Quando sono arrivato la prima volta ero un giovane tecnico senza certezze e sono stati tre anni bellissimi, dalla serie C alla serie A con relativa salvezza».
La seconda volta, invece…
«Temevo di deludere la gente. Mi sento figlio di quella terra. Poi però mi sono detto: non fare l’egoista. Il Cagliari aveva bisogno e mi sono lanciato».
Merito di Gigi Riva che le ha fatto una telefonata.
«Questa è una leggenda. Gigi lo avevo conosciuto durante la prima avventura perché era il presidente onorario e veniva in sede: diretto, schietto, senza retropensieri. La seconda volta l’ho sentito solo dopo che avevo detto sì. Il suo amore per quella squadra mi ha aiutato».
A giugno se n’è andato in lacrime…
«Guardi, sono sincero: Cagliari per me è più importante di Leicester».
Ma come, quella è stata l’impresa del secolo: lo scudetto con una piccola squadra nel campionato più famoso e difficile del mondo. Una favola moderna…
«Non pensavo di vincere. Non sono un sognatore e so quanto sia difficile la Premier League. La mia preoccupazione in quel periodo era mantenere la leggerezza nello spogliatoio».
È per questo che ha trasformato i giocatori in pizzaioli veraci?
«È nato tutto per scommessa. Stavamo subendo troppi gol e allora ho detto: se teniamo la porta chiusa vi offro la pizza. Ho trovato un posto, nel cuore di Leicester, che ci permetteva anche di cucinarla. Serate divertenti che sono servite a cementare il gruppo».
Alla fine ce l’avete fatta.
«Un’annata perfetta, irripetibile. Si sono allineati tutti i pianeti. Pensi che il maestro Bocelli mi ha telefonato perché voleva venire a cantare per noi. Si è accordato con la società per una data e casualmente è successo subito dopo che avevamo vinto il titolo. Una serata perfetta».
In Inghilterra c’era andato una prima volta al Chelsea per sostituire Vialli.
«Luca l’ho conosciuto a un concerto di Zucchero a Londra. Una persona magnetica che ha lasciato un segno nei Blues».
Lei invece all’inizio ha fatto fatica con gli inglesi, che l’avevano soprannominata Tinkerman…
«Un aggettivo che si può tradurre in due modi: pasticcione per chi mi voleva male, aggiustatutto per chi, invece, era dalla mia parte. La verità è che cambiavo spesso, sia formazione che sistema di gioco, una cosa normale in Italia, ma gli inglesi non erano abituati. A Londra però sono stato benissimo, ho una casa e ci torno spesso».
Facciamo un altro salto nel tempo. Dopo Cagliari è stato a Napoli e Firenze…
«Il primo Napoli senza Maradona. Con Diego ci siamo parlati per telefono, ha sempre amato la sua squadra. A Firenze mi ha voluto Mario Cecchi Gori. All’epoca non c’era la possibilità di vedere tutte le partite di A e io andavo a Saxa per seguirle in bassa frequenza. Così ho conosciuto Mario. A Firenze sono stato quattro anni, il periodo più lungo che ho passato in una squadra, e ho allenato Batistuta».
Alla Roma, invece, ha sostituito De Rossi e Totti all’intervallo di un derby. Ha rischiato grosso…
«Ma poi abbiamo vinto. Erano troppo coinvolti e così ho responsabilizzato la squadra».
Daniele è diventato un allenatore.
«Non me lo sarei immaginato. È un mestiere particolare. La prima dote che serve è la pazienza. Mi spiace che lo abbiano esonerato, aveva avviato un progetto».
Le liti con Mourinho?
«Mi diceva che ero vecchio e che non parlavo l’inglese. Per la verità, oltre all’inglese, parlo anche francese e spagnolo, le lingue dei Paesi in cui ho allenato. Ma quando sono andato all’Inter siamo diventati amici. Non so come sia successo, forse gli hanno raccontato come ero e come allenavo. Così quando mi hanno mandato via dal Leicester, lui che era al Manchester United, si è presentato in sala stampa indossando una maglietta con le mie iniziali: C.R.».
Ranieri, a chi deve dire grazie?
«A tante persone, sicuramente a Di Marzio che ha segnato la mia vita professionale. Poi a mia moglie, sempre piena di consigli e sempre al mio fianco».
Ranieri è un grande allenatore ma è stato anche un buon padre?
«Non lo so, non credo. Claudia è come me, introversa, non semplice. Quando da ragazzina a Firenze giocava a pallavolo si faceva accompagnare dalla mamma di una sua amica per non dire che era la figlia dell’allenatore della Fiorentina».
Una vita dedicata al calcio. Altre passioni?
«L’arte, il modernariato, visto che mia moglie ha un negozio e mi ha contagiato. Anche il teatro mi piace. Amo il grande Eduardo De Filippo».
Il calcio è cambiato. I giocatori passano la vita attaccati ai cellulari come tutti i giovani.
«Ai miei dico sempre di non stare dietro ai social, che sono una visione troppo parziale della realtà e fanno sprecare energie preziose».
Ranieri, un bilancio della sua vita?
«È molto positivo. Ho fatto quello che volevo e l’ho fatto bene. Mi sento fortunato».
Quando ha lasciato Cagliari a fine maggio ha detto: sarà il mio ultimo club. Si è pentito?
«Confesso che ho voglia di rimettermi in discussione anche se ho già detto di no a più di una proposta. Vediamo se arriva la chiamata di una Nazionale. Non quella italiana: ho la massima fiducia in Spalletti».
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