Storytelling

Árpád Weisz: dagli scudetti ad Auschwitz, il potere del calcio come memoria collettiva

La storia di un genio del calcio, vittima dell’odio e dell’orrore nazista, che seppe rivoluzionare lo sport e ispirare le future generazioni

Ci sono storie che sopravvivono al tempo, resistendo al silenzio e al dolore, come sussurri portati dal vento. Quella di Árpád Weisz è una di queste: un uomo, un allenatore, un innovatore, il cui nome fu dimenticato per decenni, sepolto sotto le macerie della Storia, prima di riemergere grazie alla forza della memoria. Nato a Solt, in Ungheria, nel 1896, Weisz non fu solo un pioniere del calcio moderno, ma anche una vittima del nazismo, simbolo di un’epoca in cui il talento non bastava a proteggere dalla furia dell’odio.

Weisz rivoluzionò il calcio, trasformandolo da gioco a scienza. Con la sua mente visionaria, introdusse concetti all’avanguardia: la preparazione atletica strutturata, i ruoli fissi, le tattiche e gli schemi studiati con cura maniacale. Fu co-autore de “Il giuoco del calcio”, un manuale pionieristico scritto insieme ad Aldo Molinari e Vittorio Pozzo, che gettò le basi per il calcio moderno. Ma Weisz non fu solo un teorico: nel 1929, alla guida dell’Inter, allora “Ambrosiana” (costretta a cambiare nome sotto il fascismo per ragioni politiche), conquistò il primo campionato italiano a girone unico, diventando il più giovane allenatore straniero a vincere la Serie A.

Il suo genio non si fermò a Milano: nel 1935, alla guida del Bologna, interruppe l’egemonia juventina, portando i rossoblù a due scudetti consecutivi e al trionfo nel prestigioso torneo dell’Expo Universale di Parigi nel 1937, battendo il Chelsea per 4-1. Era il coronamento di una carriera straordinaria, ma il 1938 segnò la sua caduta. Con l’introduzione delle leggi razziali fasciste, Weisz, ebreo ungherese, fu costretto ad abbandonare l’Italia, lasciando la sua amata Bologna e rifugiandosi prima in Francia e poi nei Paesi Bassi.

Anche a Dordrecht, in Olanda, Weisz dimostrò il suo talento, salvando la squadra locale dalla retrocessione e conquistando risultati insperati. Ma l’ombra del nazismo avanzava inesorabile. Nel 1942, la famiglia Weisz fu arrestata dalla Gestapo e deportata ad Auschwitz. La moglie Elena e i figli Roberto e Clara furono uccisi al loro arrivo nel campo, il 7 ottobre 1942. Árpád, invece, fu costretto ai lavori forzati, sopravvivendo per altri quindici mesi fino alla sua morte il 31 gennaio 1944, nella camera a gas di Auschwitz.

L’ombra del Nazismo e l’importanza della memoria collettiva

Per decenni il suo nome rimase dimenticato, cancellato dalla Storia come tante altre vite spezzate dalla Shoah. Fu nel 2007 che Matteo Marani (giornalista e dirigente sportivo), con il libro “Dallo scudetto ad Auschwitz”, riportò alla luce la sua vicenda, restituendogli il posto che gli spettava nella memoria collettiva. Da allora, sono state dedicate lapidi, targhe e vie in suo onore: dal murales fuori dallo stadio Stamford Bridge a Londra alla statua a Budapest, fino alle commemorazioni nelle città italiane che lo videro trionfare.

Ma la memoria non si limita a pietre e simboli. Il lascito di Weisz vive nel calcio stesso: nei metodi di allenamento, nell’importanza del settore giovanile che egli valorizzò, scoprendo talenti come Giuseppe Meazza, e in una visione del gioco che andava oltre il campo, cercando la perfezione tecnica e umana. La sua eredità è un monito contro l’odio e un inno alla bellezza dello sport come strumento di unione e di speranza.

Ricordo in onore di Árpád Weisz (Bologna FC foto) – www.goalist.it

La memoria come testimonianza e speranza

Weisz ci insegna che il calcio può essere memoria. Ogni partita, ogni scudetto vinto, ogni gol segnato porta con sé storie di sacrificio, dedizione e, talvolta, tragedia. Come scrisse Gianni Mura, il suo nome è tra “le voci nel vento”. Un vento che soffia ancora, ricordandoci che non basta vincere sul campo: bisogna lottare per non dimenticare.

Oggi, Árpád Weisz è più di un allenatore: è un simbolo, un testimone del potere dello sport e del dovere della memoria. Sta a noi, su quel campo infinito che è la storia, continuare a giocare la sua partita. La Giornata della Memoria dovrebbe servire a questo: ricordarci gli orrori del passato per non ripetere gli stessi ancora oggi. Anche se, tuttora, ricordare sembra non essere abbastanza. 

Marta Franco

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