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Da Leva calcistica – Da oggi faccio l’attaccante di Luca Marroccoli

Di Luca Marroccoli

I gradini passavano veloci sotto i talloni con l’eco dei rimproveri ancestrali di mia madre attento che cadi.

–  Ma’, sto uscendo, è pronto il borsone? 

-Sì. 

Glielo strappai di mano mentre uscivo dalla porta d’ingresso, poi mi gettai a capofitto per le scale che scendevano il condominio. Riuscivo ancora a sentirla in sottofondo:

-Mi raccomando, non prenderla troppo sul serio come al solito, e quando torni togli i fazzoletti dai pantaloni, che li trovo sempre spappolati in lavatrice. 

Anche questo faceva parte del solito copione di tutti i giorni. Battute d’attacco e di risposta che andavano avanti da che ne avessi memoria. A volte penso che avrei potuto recitare anche da solo, tipo monologo. Il fatto che ogni volta mi dimenticassi di una cosa così banale mi dava terribilmente fastidio.  Aprii il portone di legno al piano terra del condomino ed uscii di casa.

 Il campo non era vicino a casa, circa trenta minuti di camminata ma insistetti per andarci da solo. Controllai se nel borsone ci avessi messo tutto e ripensai come per me quella partita fosse importante, come tutte le altre, del resto.

 L’essere non è…no, non era così, l’essere è e non può non essere, il non essere è…dannazione, devo ricominciare

Domani la prof avrebbe interrogato. Mi lasciai alle spalle il  quartiere dove abitavo, uno come tanti altri, dominato da palazzine anni settanta, da cantieri che parevano abbandonati e da un rudere di un cinema chiuso anni prima. Pochi gli spazi verdi e i negozi, e ciò rendeva l’atmosfera quella di una soffocante periferia. Man mano che scendevo la strada notai come aumentava il numero dei passanti, poco più in là una signora anziana  aveva allestito sul marciapiede un piccolo chiosco di frutta, ma forse  era troppo tardi per fermarmi a prendere qualcosa. Mi avvicinai e le chiesi che cosa avesse. Mentre le parole le uscivano di bocca, iniziai a guardare insistentemente il mio orologio. Non volevo di certo essere l’ultimo, come l’altra volta. 

– Prendo questo… no, no questo.. ah, fa niente, sarà per la prossima volta- dissi alla signora che mi guardava con un cordiale sorriso inebetito e una busta di plastica già aperta tra le mani- Scusi tanto!- le urlai mentre mi allontanavo.

Ehi ragazzi, con chi sto in squadra? Ehi ragazzi, non iniziate, con chi sto in squadra?

Aprii il borsone e diedi un’occhiata. 

Tutt’apposto.

 I marciapiedi qui erano più puliti, a parte qualche cicca o cacca di cane qua e là. Sulla strada riconobbi Marco, veniva in classe con me, era uno che non ero ancora riuscito ad inquadrare. 

-Ciao!- dissi. Lui mi guardò con una faccia stizzita e passò avanti. 

Dai ragazzi, passatela! Ehi sono libero, passa! Ehi, passa! 

Continuai a camminare. Passai di fianco la mia scuola, che si stagliava imponente tra i palazzi: era un edificio elegante, costruito a fine Ottocento, e pareva un rispettabile palazzo nobiliare.

L’essere è e può…accidenti, non riesco a ricordarmelo

Ricontrollai il borsone. Era tutto come doveva essere. Il sole iniziava a calare, ed affrettai il passo. Man mano che mi avvicinavo verso il centro città, avvertivo sempre più frenesia attorno a me. La gente correva e di certo non teneva conto dello spazio attorno a loro: urti e collisioni erano fenomeni comuni. Persone sulla mezza età, al telefono, che tenevano nelle loro mani gravose buste della spesa, e che oramai erano già con la mente a casa. Passò un folto gruppo di ragazze. Non le riconobbi subito, dato che erano vestite come tante altre. Ma lei sì. I profondi occhi color mandorla, i lunghi ed ondulati capelli castani e quella inconfondibile pelle abbronzata. Lei no, non potevo non riconoscerla. Mi sentii quasi inopportuno nel salutarla. Un semplice “ciao” uscì fuori dalla mia bocca. Lei si voltò, scrutò, e… tacque. 

 Posso stare in attacco?

No, ci sono già Gianni e Michele. Mettiti un po’ dove ti pare. 

Ero senza ruolo. Ho vissuto alle spalle degli altri, nell’ombra quando andava bene, conoscevo il freddo della panchina e il tempo scandito a sgretolare quello che restava dei fazzoletti che la lavatrice aveva compattato.

Perché mi esaltavo ogni volta, ad ogni cavolo di partita, pensando che la storia sarebbe stata diversa? E allora chi diavolo ero, se a nessuno mai importava di me? Io ero negli altri, non in me stesso. Vuoto totale, ecco che sentivo. Invisibile,vero?

L’essere è e non può… 

Mi ritornava sempre alla mente, in continuazione. E lo zaino, il maledetto zaino: era tutto a posto?  

Camminando guardai gli scarpini. Erano abbastanza vecchi, ma ancora in buone condizioni. Ormai intravedevo il campo davanti a me. Le luci vecchie e giallognole, il bar rimasto isolato nel tempo e il verde indistinguibile dell’erba non lasciavano dubbi. Ero arrivato. Davanti al cancello sospirai. 

Posso tirare io il rigore?

Scordatelo. 

Lo aprii ed entrai. Nello zaino tutto apposto. Mi diressi verso lo spogliatoio e lasciai lì le mie cose. 

-Ehi ragazzi, non spegnete le luci, ci sono ancora io!- urlai. 

Ero di nuovo l’ultimo.

Un puzzo indicibile proveniva dai gabinetti. Le crepe sulle pareti bianche erano decisamente peggiorate, e non mancavano nemmeno gli innumerevoli scarabocchi a mo’ di firma di chiunque fosse passato di lì. Entrai nel rettangolo verde. 

Mi ascolteranno? Boh, proviamoci.

Tastai con gli scarpini l’erba sintetica. Nell’ombra per tutta la vita, di ingressi trionfali non sapevo farne. Dovevo farlo per me, Non era solo una partita o solo un campo in una comune città. I miei compagni già si stavano scaldando. 

 Non prenderla così sul serio come al solito.

 Mi diressi verso di loro e dissi:- Da oggi faccio l’attaccante. 

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