Dodò: “Seleção? Un sogno. Palladino è il top, con lui più vicino alla porta. Nella mia città natale ho creato una squadra amatoriale. Invio soldi e cibo”

Fonte foto: Profilo X Dodò

Dodo, terzino della Fiorentina, si è raccontato a Repubblica (Firenze) : «Ho fatto quattro provini al San Paolo e tre test al Corinthians come attaccante ma non mi hanno preso. Poi sono passato al Coritiba. L’allenatore mi ha dato una settimana per adattarmi a terzino destro. Ha funzionato, non mi sono mai più spostato di lì salendo in prima squadra. Un salto rapido, che mi ha cambiato la mia vita».

Palladino giocherà a tre in difesa, con lei più largo a centrocampo: che cambia? «Il mister è il top. Il modo in cui gioca mi piace: così posso stare più vicino alla porta ed è fantastico».

Che paura quell’infortunio la scorsa stagione… «Sono il primo calciatore al mondo a essere tornato in campo quattro mesi dopo essermi lesionato il crociato (Dodo ride, ndr). Ho lavorato tanto per questo, tutti i giorni. E il sorriso mi ha aiutato».

Pensa mai al Mondiale col Brasile? «Sempre, un sogno che vorrei realizzare. Ho fatto tutte le giovanili, mi manca solo la Seleção. E pensare che due giorni prima di quell’infortunio a Udine mi aveva chiamato il ct per dirmi che mi avrebbe convocato».

C’è qualcosa che le toglie il sorriso? «Quando perdo una partita. Sto due giorni serio, non mi piace».

Un sorriso che si porta dalla sua città natale… «Lì la vita vita è difficile, sono cresciuto nella povertà. Adesso ci vivono i miei genitori anche se si sono spostati in una parte più ricca. Ci torno sempre durante le vacanze, passo dal villaggio dove ho vissuto. Porto una grande valigia con tante cose da mangiare per tutta la famiglia, per gli amici. E non solo. Ho deciso di creare una squadra di calcio amatoriale, soltanto con giocatori di quel posto. Invio loro soldi, cibo. Domenica hanno la finale e poi cambieremo maglia: sarà tutta viola».

Cosa ricorda dell’esperienza allo Shakhtar? Dove ha vissuto? «Sono stati giorni infernali. Lo Shakhtar era a Kiev. L’allenatore era De Zerbi. A febbraio sono iniziati i bombardamenti, siamo scesi in un bunker insieme ad altri brasiliani. Il mister è rimasto con noi: “Andrò via soltanto quando sarà uscito da qui l’ultimo calciatore”, ci ripeteva. Sentivamo le bombe, l’aeroporto è stato colpito. Marlon era con moglie e figlio, non usciva perché rischiava troppo. Dopo una settimana un giornalista ucraino ci ha detto di prendere il treno, di lasciare la capitale il prima possibile. Abbiamo messo in valigia quel che avevamo, siamo saliti in macchina e fuggiti verso la stazione soltanto coi bagagli e un documento. Abbiamo fatto sedici ore di treno fino a Budapest».

Segue sempre il conflitto? «Certo. Ho portato a Firenze due persone, moglie e marito, che lavoravano per me a Kiev. Gli garantisco sempre un un mese di vacanza, loro tornano in Ucraina. Un giorno la signora mi ha detto che sua sorella non ce l’ha fatta, colpita da una bomba mentre era in casa coi suoi bambini».

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