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Leandro Castán: “Pensavo di morire, persi 15 kg in due settimane. Ve lo giuro, ho fatto di tutto per tornare”

Scrive Cronache di Spogliatoio, immaginate di essere uno dei 5 migliori difensori centrali della Serie A. Avete appena disputato la miglior stagione della vostra carriera, siete già nel giro della Nazionale brasiliana e la vostra squadra ha tutto per provare a strappare lo scudetto alla Juventus nella stagione successiva. Poi, di colpo, è come se vi sentiste un ex giocatore: «Te lo giuro, ho fatto tutto quello che potevo fare per tornare al mio livello. Ma non ci sono riuscito». Quasi si commuove Leandro Castán mentre ce lo racconta.

«Da dove sono nato, per arrivare, non basta avere qualità. Serve la grinta, il carattere. In Brasile le difficoltà sono tante, credimi». Poi Leandro si ferma: «Se ci ripenso, ho i brividi. Di tutti quei ragazzi cresciuti lì, nessuno ce l’ha fatta a parte me. Quando arrivi ad alti livelli, tutti dicono: ‘Ah che bella vita che fai!’, ma nessuno è cresciuto a Jaú con me, nessuno ha visto i sacrifici che ci sono stati dietro».

Quando il papà si ritira, Leandro ha 10 anni. Il calcio riempie le sue giornate fino ai 16 anni: «Poi sono iniziati i problemi e le pressioni. Non avevamo soldi. Mio padre dopo aver smesso di giocare lavoraVa tutti i giorni dalle 6 alle 24. Mi bruciava il cuore». La carriera di Leandro è ricca di coincidenze, ricordatevelo, perché questo leitmotiv ritornerà. «Una mattina lo chiamo: ‘Voglio iniziare a lavorare per aiutarti con le spese’E lui: ‘E il pallone?’‘Se deve succedere, succederà’». Nel pomeriggio il padre riceve una telefonata: «Porta Leandro, lo vuole l’Atletico Mineiro». Coincidenze appunto, per chi da quel giorno, a 16 anni, lascia casa, valigia in mano, per poi tornarci solo da calciatore affermato.

«Cosa ho provato appena ho saputo della Roma? Mi sono sentito una pressione sopra le spalle… ma ero pronto a tuttoPerò dai, il primo pensiero in realtà è stato: ‘O mio Dio, giocherò con Totti’». Il primo anno in giallorosso è complicato: la squadra è nelle mani di Zeman, che non rinuncia mai al suo 4-3-3 a trazione offensiva e la difesa prende più di qualche imbarcata. A febbraio viene esonerato e la panchina viene affidata al traghettatore Andreazzoli. Quell’anno Castán segna anche un gol, nel 4-2 alla Fiorentina in una delle migliori prestazioni di quella Roma. La stagione, però, termina nel peggiore dei modi in quel 26 maggio 2013 che è rimasto scalfito nella memoria collettiva di tutta la capitale. Giallorossa o biancoceleste che sia.

Fonte Foto: contrataque

«Ancora oggi non ho capito perché abbiamo perso quella finale di Coppa Italia. Non avevamo una squadra fortissima, ma loro erano peggio di noi. Io arrivavo da due anni con 2 titoli. Per me era chiaro che avrei vinto anche quella finale. Non è che giocammo male, non giocammo proprio». Il sogno giallorosso di vincere la decima Coppa Italia si infrange contro il gol di Lulic al 71’. «Ricordo che nello spogliatoio nessuno parlava. Io ho buttato la medaglia del 2° posto. Una stupidaggine. Se tornassi indietro, non lo rifarei… ma ero davvero troppo incazzato».

13 settembre 2014. Al Castellani di Empoli, la Roma gioca la 2a partita della sua stagione. Il mercoledì dopo ci sarà il ritorno in Champions League contro il CSKA Mosca. Nella trasferta in Toscana, Castán è uno dei due centrali, come sempre. Esce all’intervallo, per la sorpresa di tutti i tifosi: «Un cambio precauzionale, visto l’impegno di Champions», diranno. E invece no.

«Fino all’ingresso in campo per me era stato tutto normale. Anzi, prima della partita – proprio per la sfida in UCL del mercoledì – Garcia mi fa: ‘Leandro vuoi giocare? Perché poi mi servi per il CSKA’. ‘Vai tranquillo mister’. Poi mi ricordo che nei primi 5 minuti di partita, mi vengono i crampi alla gamba. Maicon mi guarda e capisce subito che avevo qualcosa di diverso». Sul finale del primo tempo la Roma segna grazie all’autogol di Sepe, ma l’aria è pesante. «Al rientro negli spogliatoi Maicon fa a Garcia: Mister, togli Castan. Gli fa male la gamba’. E io: ‘Oh, ma che dici? Sto bene, gioco’. Allora Rudi mi fa: ‘Leandro che hai?’‘Niente’. E Maicon: ‘Toglilo, fidati’. Da lì, non rientro in campo per un anno».

Ma non è finita lì. «Il peggio fu il giorno dopo. Mi sveglio e non mi reggo in piedi. La testa mi girava fortissimo, pensavo di morire in quegli istanti. Non riuscivo a fare niente». I medici della Roma non riescono a comprendere l’entità del problema di Castán: vertigini? labirintite? Non si trova una soluzione. «Per 15 giorni sono rimasto così, senza capire cosa mi stesse accadendo. Avevo giramenti di testa e poi vomitavo, vomitavo, vomitavo. In due settimane ho perso 15 chili. Mi dicevo: ‘Sto morendo’. Non pensavo al rientro in campo, ma solo al restare vivo. Lì ad Empoli, è finita la mia carrieraSi sono spenti tutti miei sogni: giocare un Mondiale, vincere uno scudetto, fine. Magari sarei rimasto a Roma fino ad oggi. Invece no, è cambiato tutto da un giorno all’altro». A quella fase di incertezza, dopo circa 3 settimane, viene dato un nome: cavernoma cerebrale, un tumore benigno al cervello.

«Questo non l’ho mai raccontato. Una volta mi sono detto: ‘Basta, non ne parlo più’. Poi un mio amico mi ha fatto ragionare: ‘Leandro devi parlarne, sempre. Questa è la tua storia, ma soprattutto puoi aiutare chi è in difficoltà, dare un insegnamento’». Dalla trasferta di Empoli la carriera di Castán, ormai lanciatissimo ed entrato anche nel giro della Nazionale già dal 2012, si ferma. Come detto prima, la sua storia è ricca di coincidenze. Il 3 dicembre 2014 gli viene detto di operarsi. Lo stesso giorno, la moglie gli annuncia di essere incinta di una bambina. Quasi uno scherzo del destino.

In quel momento, ancora una volta, torna la figura di Walter Sabatini, il primo a credere in lui due anni prima prelevandolo dal Brasile: «Qualsiasi persona avrebbe pensato ai soldi in quel momento e mi avrebbe mandato via, anche perché io non volevo operarmi. Lui no. Come me l’hanno detto, pensavo: ‘Ok, io non mi opero, smetto e torno in Brasile’. Sono anche andato a Trigoria per rescindere il contratto. Entro e trovo Sabatini, che mi fa: ‘Senti, fino a quando sono qua, tu resti il centrale della Roma. Prenditi il tempo che vuoi. Non vuoi più giocare? Va bene, sono d’accordo con te, ma pensaci’. Mi emoziono ancora oggi a parlarne». Dopo due settimane di riflessione, Leandro prende la decisione di operarsi, convinto dai medici: «Hai 26 anni, operati per togliere il problema dalla tua vita. Smetti di giocare? Ok, ma il tumore al cervello resta». 

Lì, ci ha raccontato, è sorto però il problema più grande: il lato psicologico, il lato fisico, la totale confusione in cui è entrato: «Non sono stato più lo stessoTe lo giuro, ho fatto tutto quello che potevo fare per tornare al mio livello. Ma non ci sono riuscito. So che non potevo fare di più, e ora sono tranquillo, non ho rimorsi». Vedersi diagnosticare un tumore al cervello a 28 anni è una cosa che si fa fatica anche soltanto ad immaginare. Figuriamoci, a provare.

Leandro entra in un tunnel di paura, sofferenza, di nottate trascorse fissando le pareti della camera con il timore di non poter più mettere piede in campo. O, forse peggio – come ci ha detto lui – di non poter tornare al suo livello. Il periodo del recupero, infatti, è altrettanto complicato: «Litigavo con tutti. Volevo capire di chi fosse la colpa del perché non riuscissi a tornare al mio livello. Mi incazzavo, ma alla fine non era colpa di nessuno. Quando ti aprono la testa è normale perdere velocità, agilità, equilibrio. Non era facile neanche stare con i miei compagni. Vedevo che in allenamento avevano pena per me. Lo leggevo nei loro occhi, era come se tutti pensassero ‘povero ragazzo’. E io mi sentivo male, soffrivo tantissimo. Ma poi mi guardo indietro e penso: ‘Cazzo, era difficile anche per loro. Se anch’io avessi avuto un compagno in quelle situazioni, avrei fatto lo stesso’».

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Lisa Grelloni

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