Mainstream come Davide Moscardelli: un’icona degli anni Dieci del Duemila
Viviamo in un’epoca dove l’apparire conta più di ogni altra cosa: si può essere tutto, ma se non si indossa il capo di abbigliamento alla moda, il taglio di capelli all’ultimo grido o non si hanno uno o più tatuaggi non si è nessuno.
Il calciatore è una figura di riferimento: molti ragazzi si vestono come i calciatori, molti hanno una capigliatura che richiama un calciatore ed hanno tanti tatuaggi, proprio come tanti calciatori (magari anche uguali ai loro). Chi fa una di queste cose senza essere, nel caso, un calciatore professionista, viene definito “poser”, ma tant’è.
Da sempre il calciatore richiama l’attenzione di tutti. Ma il calciatore non è sempre stato un esempio di stile e per capirlo basta vedere l’immagine di un calciatore degli anni Venti-Trenta e quello degli anni Settanta: impomatati con maglie lontanissime parenti di quelle attuali e scarpe di cuoio duro ai piedi; basette e capelli lunghi (leggasi Olanda ‘74), baffi, canotta sotto la maglia, peli sul petto a profusione e fisici atletici ma non tonici. Qualcosa è cambiato a partire dai primi anni Duemila ed in questi ultimi venti anni davvero il calciatore è sinonimo di stile, bellezza e figaggine: calciatore come esempio dell’essere un personaggio mainstream. Un calciatore molto mainstream è stato, senza dubbio, Davide Moscardelli.
Moscardelli è l’emblema del calciatore mainstream. Senza se e senza ma. Anzi, si è ritirato il 29 agosto 2020 dopo ventidue anni da calciatore (diciassette da professionista) e oltre duecento gol segnati complessivamente.
Moscardelli era un buon attaccante, uno che ce l’ha fatta. Uno che è partito dai campi della provincia romana più profonda e che è arrivato a giocare in Serie A, segnando anche dodici reti in novantadue partite giocate. Ma perché Davide Moscardelli da Mons, Regione Vallonia, Belgio, ma romano de Roma, è stato mainstream? Perché ha fatto gol incredibili? No (o comunque non solo). Perché era dotato di skills che molti giocatori non avevano? No. Perché è stato uno che ovunque è andato è diventato un idolo dei tifosi? No (anche se questo però è vero). Davide Moscardelli è stato mainstream per vicende al di fuori del calcio che lo hanno reso un’icona degli anni Dieci del Duemila. Davide Moscardelli era famoso per la sua…barba. Ma Moscardelli non è stato solo barba e basta. Parliamo di un giocatore con una tecnica clamorosa affinata dalla Promozione è arrivato a giocare in Serie A .
“Moscagol” tra il 1997 ed il 2001 ha giocato nella Maccarese, squadra di un paese a trenta chilometri da Roma, e l’anno dopo la vittoria del campionato è passato al Guidonia. Poi sono arrivate la Sangiovannese e l’approdo tra i professionisti. In Toscana, Davide Moscardelli rimase una stagione e nel 2003 arrivò la chiamata della Triestina in Serie B. In cadetteria, l’attaccante romano giocò sette stagioni consecutive approdando in piazze importanti come Rimini, Cesena e Piacenza.
La stagione piacentina (2009/2010) è stata quella della consacrazione: 14 reti e la chiamata del Chievo Verona. E’ Serie A, signori. In dieci anni, Davide Moscardelli è passato dall’Eccellenza alla massima serie, al calcio mainstream: non ci sperava più, ma i sacrifici pagano sempre l’impegno profuso. Ed il 29 agosto 2010, al “Bentegodi”, contro il Catania, il “Mosca” segnò il suo primo gol in Serie A. La settimana dopo, al “Ferraris” contro il Genoa, arrivò il suo secondo gol. Un inizio pazzesco per uno che aveva debuttato in massima serie ad “appena” 30 anni.
Moscardelli rimase al Chievo fino al 31 gennaio 2013, quando passò, nell’ultimo giorno del mercato invernale, al Bologna del suo vate Stefano Pioli. Il “Mosca” aveva i capelli lunghi e da tempo aveva un pizzetto. Si annoiava a fare la barba e se la lasciò crescere. Cresce che ti ricresce e la barba si allungò. Partì una scommessa con i compagni: “se vado al Bologna, mi taglio la barba”. Moscardelli andò al Bologna, si prese la maglia numero 10 ed aveva il viso liscio. Tutti volevano che continuasse a farsela crescere. L’ultima volta che si è fatto la barba completamente risale al 2 febbraio 2013: c’era Mario Monti al governo, alla Casa Bianca c’era Barack Obama, la Croazia era da poco entrata nell’Unione europea, la benzina costava € 1,71 ed il dominio della Juventus sul nostro campionato era al secondo atto di nove. Da allora, sono passati nove anni e la barba di Davide Moscardelli è sempre lì. Lunga, ben tenuta. Iconica.
Per carità ci sono stati giocatori che hanno giocato con la barba in passato prima di lui (Socrates, Sollier, Gerets, Vendrame) e ci sono diversi sportivi barbuti (i cestiti Gigi Datome e James Harden o il rugbista francese Sébastien Chabal), ma nessuno ha mai avuto una barba come quella di Moscardelli.
Barba che lo ha caratterizzato nell’esperienza bolognese (dove ha fatto anche per qualche minuto il portiere contro l’Atalanta), leccese e toscana con le maglie di Arezzo e Pisa dove indossò la fascia di capitano. Sia in Salento che ad Arezzo e Pisa, maglia numero 9 sulle spalle, idolo dei tifosi non tanto per essere un antidivo, ma per essere andato sempre in doppia cifra ed aver dimostrato sempre passione e devozione per la maglia che indossava e per i tifosi che supportavano.
Un maligno potrebbe pensare che Davide Moscardelli sia diventato un personaggio quasi comico, schiavo di una barba che se non l’avesse avuta nessuno lo avrebbe mai considerato. Ma Davide Moscardelli è stato altro, è stato l’opposto di quello che si pensa: è sempre vicino alle cause sociali e quando era a Pisa ha messo all’asta la fascia da capitano personalizzata (il suo volto stilizzato con barba e baffi, ça va sans dire) ed il ricavato è andato interamente in beneficienza.
Il bello di Davide Moscardelli è stato però il fatto che non si è mai preso sul serio: vedasi i siparietti con la moglie dove, durante il lockdown, imitava Raimondo e Sandra al grido di “Che barba! Che noia!”. Oppure le challenge vinte aprendo una bottiglia di birra con la barba o lanciandosi in piscina con sforbiciate volanti.
Ma poi, soprattutto, Moscardelli è stato l’emblema del calciatore-operaio, quello partito dai campi della periferia del calcio e arrivato a coronare il sogno di giocare in massima serie. Uno cresciuto con il mito di Gabriel Omar Batistuta, uno che domenica 17 giugno 2001, giorno caro a tifosi romanisti, ha giocato la mattina con la Maccarese ed il pomeriggio è andato all’”Olimpico” a vedere vincere la “sua” Roma contro il Parma il suo terzo scudetto. Uno di noi, un giocatore mainstream suo malgrado mainstream.
Questa è stata la storia di Davide Moscardelli detto “Moscagol”, attaccante di razza e per vocazione, uno che è partito dalla gavetta e che è arrivato a giocare in Serie A. Un personaggio incredibile diventato famoso senza aver vinto scudetti, coppe o tituli. Ma anche un calciatore serio, preparato, sul pezzo, mai banale, spontaneo, autoironico, umile, antidivo. Uno che ovunque è stato, è diventato un idolo dei tifosi. Che, in alcuni casi, è davvero l’unica cosa che conta. Sempre con la barba: non un vezzo, ma una parte importante di sé.
Articolo a cura di Simone Balocco