Gigi Maifredi e la Juventus: poco “champagne”, molto bicarbonato
1990, un anno molto denso: l’unificazione della Germania; “Nuovo cinema paradiso” vince l’Oscar; Nelson Mandela è libero dopo 28 anni di carcere ed in Sudafrica si abolisce l’apartheid; Toto Cutugno vince l’Eurofestival; i “tre tenori” (Pavarotti-Domingo-Carreras) si esibiscono per la prima volta insieme alle terme di Caracalla; scoppia la prima Guerra del Golfo.
Calcisticamente, il 1990 è l’anno del dominio europeo delle nostre squadre con Milan, Juventus e Sampdoria vincitrici delle quattro coppe europee (con due derby in finale: Juventus-Fiorentina in Coppa Uefa e Milan-Sampdoria in Supercoppa europea). Ma è anche l’anno del “nostro” Mondiale, quell’”Italia ’90” che ha stabilito che il nostro calcio è davvero il top a livello globale. Peccato che la nostra Nazionale non abbai vinto la Coppa del Mondo e si sia fermata al terzo posto in una manifestazione che tutti avremmo voluto (e dovuto) vincere. Lo scudetto è vinto dal Napoli di Maradona, ma il 1990 è lo zenith di un metodo di gioco innovativo e spettacolare. Lo chiamano “calcio champagne”, un gioco bello, spettacolare (nelle idee), eclatante. Il suo vate è un allenatore bresciano che nelle tre stagioni precedenti a Bologna si è affermato come uno dei più innovativi di tutto il panorama nazionale. Lui è Luigi Maifredi e nell’estate 1990 diventa l’allenatore della Juventus del nuovo corso, un corso rivoluzionario. Il nuovo corso riguarda sia il management sia l’ambito tecnico: via dopo 19 anni il presidente Boniperti e dentro l’avvocato Caissotti di Chiusano; dentro Luca Cordero di Montezemolo come vice-presidente esecutivo ed Enrico Bendoni come direttore generale, via la bandiera juventina Dino Zoff che in panchina, la stagione precedente, ha portato in piazza Crimea una Coppa Italia ed una Coppa Uefa.
Perché la Juventus assume Gigi Maifredi? Perché Maifredi nelle tre stagioni a Bologna ha fatto faville: primo anno vittoria del campionato di Serie B; secondo anno salvezza tranquilla giocando un gran bel calcio e mettendo in difficoltà le grandi; terzo anno qualificazione alla Coppa Uefa e ritorno del club in Europa dopo quindici stagioni.
Tutti però pensano: la Juventus non è il Bologna ed i suoi obiettivi sono diversi; Maifredi non ha un background da grande tecnico; ha vinto e fatto bene in provincia, ma senza nessun titolo “di peso” in bacheca. Maifredi firma per un solo anno con il club torinese: l’Avvocato Agnelli gli propose un triennale. L’Avvocato ci rimase male.
La campagna estiva della società è importante: via gli stranieri Zavarov, Aleijnikov e Rui Barros e dentro il neo campione del Mondo Hassler e Julio Cesar; dentro i ventenni di Canio, Corini e Orlando insieme a due giocatori di fiducia di Maifredi, Luppi e de Marchi. Insieme a loro, una squadra ben assortita ma molto operaia: da Galia a Bonetti, da Napoli a de Agostini, da Alessio a Fortunato, da Marocchi (già con Maifredi a Bologna) al giovanissimo Casiraghi alle stelle Schillaci, capitan Tacconi e Roberto Baggio.
La nuova coppia d’attacco bianconera è formata da due dei protagonisti di Italia ’90 (Baggio-Schillaci): finalmente, dopo cinque stagioni di “vuoto” tricolore, la Juventus parte tra le favorite per la vittoria dello scudetto. Peccato che alla fine del campionato la Juventus arriva addirittura settima, non si qualifica alle coppe europee dopo ventotto anni consecutivi di partecipazioni, in Coppa Italia, dove è campione uscente è eliminata nei quarti di finale dalla Roma ed in Coppa delle Coppe la squadra arriva fino alle semifinali dove è eliminata dal Barcellona, primo avversario di spessore affrontato fino a quel momento. La stagione 1991/1992 vede poi il ritorno in panchina di Giovanni Trapattoni. I malpensanti (o altresì detti “gufi”) che criticavano l’affidamento della panchina a Maifredi alla fine avevano avuto ragione. Tutto potrebbe essere liquidato così, ma la stagione del “calcio champagne” juventino merita un’analisi approfondita. Perché di stagioni fallimentari ne è pieno il calcio (e sempre ne sarà piena), ma come quella della Juve datata 1990/1991 ce ne sono state davvero poche.
I primi problemi si ebbero in estate durante la campagna acquisti, con la Juventus che non porta da Maifredi Carlos Dunga, metronomo del centrocampista della Fiorentina richiesto dal tecnico bresciano: a Maifredi dicono che dopo aver preso Baggio, a Firenze non avrebbero preso bene (per usare un eufemismo) anche la partenza del brasiliano alla Juventus, oltre al fatto che il suo arrivo sarebbe costato molto alle casse juventine.
La sconfitta nella finale di Supercoppa italiana per 5-1 contro il Napoli campione d’Italia fa storcere il naso a tutti, ma ciò è considerato meno di un incidente di percorso perché il trofeo (allora) non è considerato importante anche perché poco danarosa. Intanto però capitan Tacconi ha dovuto raccogliere cinque “pere” in fondo alla rete quel 1° settembre 1990 allo stadio “San Paolo” in diretta televisiva.
In campionato la Juve inizia bene con quattordici punti nelle prime dieci partite, ma qualcosa si incrina nello spogliatoio dopo la sconfitta nel secondo turno di Coppa Italia contro il “cadetto” Taranto il 12 settembre 1990 allo “Iacovone”: in appena dodici giorni, la Juventus subisce due pesanti sconfitte e la panchina di Maifredi è molto in discussione. La parola “esonero” in casa juventina non è un termine molto usato, visto che dal 1969 la Juve non esonera un allenatore in corso di stagione (allora era toccato a Luis Carniglia), ma qualcuno inizia a pensare che sarebbe meglio già ora un avvicendamento in panchina.
Il girone di andata si chiude con la Juve seconda (a pari merito con la Sampdoria) a due punti dall’Inter. Il cammino fin lì non è pessimo, con le vittorie contro Inter, Roma (5-0 con tripletta di Schillaci), Fiorentina e Napoli, sei pareggi (il “peggiore” contro il Cagliari che, da ultimo in classifica, rimonta da 2-0 a 2-2) e alcuni passi a vuoto contro Bari, Milan e Genoa. Allora non c’era il mercato di gennaio e la squadra non si modifica da novembre fino alla fine del torneo.
Il girone di ritorno è negativissimo: cinque vittorie, cinque pareggi, sette sconfitte di cui cinque su tutte: Lazio (che chiude la corsa scudetto del club), Fiorentina (Baggio si rifiuta di calciare il rigore al “Franchi” e alla sua uscita raccoglie la sciarpa della Viola lanciatagli da un tifoso), il derby, Milan (successo definitivo della zona “sacchiana” contro quella “maifrediana con quattro punti su quattro persi in campionato) e Genoa che estromette il club bianconero delle coppe in favore (anche) dello stesso Genoa che si qualifica per la prima volta nella sua storia alla Coppa Uefa.
La Juventus chiude settima: l’ultima volta che la Juve chiuse la stagione peggio risale alla stagione 1961/1962 quando arrivò dodicesima ed è stata la prima volta che la Juventus non si qualificava la stagione successiva alle coppe europee.
Tutti contro Maifredi. Ma chi è Luigi Maifredi da Lograto, classe 1947?
Maifredi si impone all’attenzione degli addetti ai lavori nel campionato 1986/1987 di Serie C2 quando, alla guida dell’Ospitaletto, squadra dell’omonima cittadina bresciana, vince il campionato dopo che la squadra aver perso due spareggi promozione consecutivi mentre il tecnico con la Orceana di Orzinuovi aveva vinto un campionato di Interregionale.
Presidente dell’Ospitaletto era Gino Corioni, imprenditore bresciano nell’ambito dell’arredamenti da bagno, un appassionato di calcio che nel 1987 rileva il Bologna, da sei stagioni “bloccato’” in Serie B (con una stagione anche in Serie C1). Corioni affida la squadra felsinea al “suo” Gigi e vince subito il campionato cadetto e torna in massima serie.
Da lì, una escalation: salvezza il primo anno, qualificazione Uefa l’anno successivo e tutti che parlano della zona applicata da Maifredi. Il Bologna piace ed il modo di giocare molto “avanzato” fa conoscere questo allenatore di 43 anni a tifosi, estimatori del bel gioco e agli addetti ai lavori. Si parla di un calcio spumeggiante ed entusiasmante: lo chiamarono “calcio champagne”, anche perché Maifredi ha un passato da un impiegato commerciale di un’azienda bresciana che tratta liquori e champagne, la “Veuve Clicquot Ponsardin”.
Maifredi piace, entusiasma. Ed entusiasma così tanto che già nel 1988 la Juventus bussa alla sua porta, ma lui rifiuta. E visto che Maifredi è un uomo fortunato, due anni dopo la Juventus bussa ancora alla sua porta: allora lo cerca Boniperti, questa volta Luca Cordero di Montezemolo. Se fosse rimasto il presidentissimo, sicuramente non lo avrebbe richiamato.
Milan, Inter, Napoli e Sampdoria allora erano le squadre più forti ed ai bianconeri rimanevano solo le briciole: la Vecchia Signora doveva tornare a competere per scenari migliori e per farlo affida, quindi, le chiavi della “nave” ad un allenatore giovane, un “piccolo” Sacchi visto che l’allora tecnico del Milan è considerato (e lo è tuttora) un innovatore nella storia del calcio: l’obiettivo è “estromettere” il Milan dal ruolo di dominatore in Europa.
I fatti dissero poi altro: Sacchi ha scritto la storia del calcio (vincendo poco per quanto avrebbe magari potuto e dovuto), mentre Maifredi è rimasto scottato dall’esperienza juventina e ha avuto un’enormità di fallimenti successivamente: tra il 1991 (l’anno post Juve) ed il 2013 (l’anno del suo addio) colleziona tanti esoneri, allena una stagione in Tunisia, Spagna e per qualche tempo è anche opinionista.
Il gioco di Maifredi si basava su corsa e sull’andare sempre all’attacco. Tre i suoi obiettivi: segnare tanti gol, vincere, divertire il pubblico. Peccato che uno schema di questo tipo porta ad avere una difesa alta e al primo contropiede i pericoli sono dietro l’angolo. Maifredi nella Juve gioca con quattro attaccanti: Baggio la fantasia. Schillaci l’istinto, Cariraghi la forza, Hassler la corsa. Peccato che Baggio e Schillaci sono usati fuori ruolo, ovvero esterni d’attacco e non a cercare gli spazi e la via del gol. Se Baggio è il top scorer della stagione, Schillaci disputa una pessima stagione (realizzando complessivamente otto reti in quarantadue partite), a fine campionato è ceduto all’Inter e nel 1994 va a giocare in Giappone, primo italiano a militare in J-League.
Che Maifredi si sia bruciato da solo? Può essere. Che la Juve lo abbia bruciato? Assolutamente, anche perché mai la Juventus aveva affidato la sua panchina ad un allenatore con, contemporaneamente, due anni di Serie A alle spalle, nessun risultato di prestigio (Serie C2, Serie B e una qualificazione Uefa non contano a quel livello) e con un concetto di calcio troppo innovativo. In più l’allenatore di Lograto si è scontrato con due realtà totalmente diverse: a Bologna non era obbligatorio vincere per forza ed i tifosi erano sempre con lui, a Torino si è obbligati vincere ed i tifosi ad inizio primavera già da tempo gli avevano voltato le spalle, facendo partire il countdown per il suo addio arrivato alla penultima giornata.
Ovvio che se non si fa esperienza non si farà mai esperienza, ma aver trovato nell’allenatore bresciano l’allenatore del grande ritorno della Juventus alla vittoria è stato un abbaglio. Anche perché la società nel momento di difficoltà non ha fatto quadrato nei suoi confronti lasciandolo da solo contro tutto e tutti.
C’è anche molta colpa del nuovo management nel discorso Maifredi: il presidente Caissotti di Chiusano era un avvocato e non un uomo di calcio (tifoso sì, ma non aveva il background di Boniperti, per intenderci), Montezemolo non era mai a Torino ma sempre in giro tra Italia ed estero per impegni di lavoro e non era anche lui un uomo di calcio, ma bensì un uomo di macchine (di Formula 1, nello specifico).
La stagione successiva, con il ritorno di Trapattoni in panchina, la Juventus arriva seconda e nel 1993 vince ancora la Coppa Uefa, nel 1994 arrivano la Triade, Lippi, giocatori di vero talento e la Juventus riesce tornare sul tetto d’Italia, d’Europa e del Mondo.
Cosa rimane di Maifredi? Una sorta di mezza via, spunto per traghettare la squadra verso i successi della seconda metà degli anni Novanta.
Gigi Maifredi ed il suo calcio: doveva essere champagne, fu bicarbonato. Non proprio la stessa cosa.
Peccato, visto cosa ha regalato al Mondo quel 1990.
Articolo a cura di Simone Balocco