Nel paese dell’aquilone cosmico: Oliver Guez ci porta in Argentina alla scoperta del suo calcio
La moglie e l’amante
Olivier Guez, autore di Elogio della finta, porta il lettore a scoprire il calcio in Argentina e il suo legame indissolubile con la società del paese sudamericano, specchio e panacea di tutti i problemi. In questa parte del mondo ogni moglie o fidanzata deve mettersi il cuore in pace: il suo innamorato avrà sempre un’amante, la pelota, la palla, il calcio. Il tifoso argentino è passionale, impreca, piange, prega, sembra che la sua vita dipenda dal risultato della partita.
L’Argentina respira calcio: nel paese si trovano librerie con sezioni intere dedicate alla letteratura calcistica, le produzioni cinematografiche portano spesso il calcio sul grande schermo, perfino papa Francesco nutre una grande passione per questo sport. A Buenos Aires ci sono cinque grandi club: il River Plate, il Boca Juniors, il San Lorenzo, il Racing e l’Indipendiente. A queste si aggiungono formidabili squadre di quartiere come l’Argentinos Juniors, il Vélez Sarsfield, l’Huracán; club dell’area metropolitana di Buenos Aires come il Banfield o della provincia omonima come l’Estudiantes de La Plata.
Tutto cambia in Argentina, ma non cambierà mai la fede calcistica, che spesso travalica i confini della sana rivalità sportiva: ne sa qualcosa il Racing, che nel 1967 vinse la Coppa Libertadores e i tifosi dell’Indipendiente si introdussero nello stadio dei rivali seppellendo sette gatti neri. Ne furono trovati solo sei, ma la maledizione aveva ormai avuto effetto: l’Indipendiente vinse cinque Libertadores, mentre il Racing cadde sempre più in basso fino al fallimento del 1999. Il settimo gatto nero era ormai un’ossessione per i racingmen: vennero in centomila da tutta l’Argentina per trovare i resti dell’ultimo gatto e alla fine lo trovarono in un canale ricoperto di cemento. L’anno dopo il Racing vinse il suo primo titolo dal 1967, il campionato.
Fonte: Wikipedia
La nuestra: ascesa, caduta e rinascita
Con uno stile rapido e incisivo, Guez descrive la nascita della passione per il calcio in Argentina, arrivato con gli inglesi, ma gli argentini lo hanno trasformato a propria immagine e somiglianza: questo nuovo sport attecchisce rapidamente in ogni ambiente sociale ed è strumento di integrazione per chi arriva nel paese, con Buenos Aires che vive una rapida trasformazione ed elegge il pibe, il ragazzo scaltro, individualista, dal gioco sconcertante, tutto dribbling e istinto, a modello di calciatore ideale argentino, il modello di una nuova Argentina in rapida trasformazione a inizio Novecento.
La vittoria del campionato del Racing nel 1913, senza nessun giocatore di origine britannica, mette fine al complesso di inferiorità degli argentini verso i maestri inglesi e il calcio argentino sarà segnato da un modo di giocare che è il riflesso dei suoi interpreti: la nuestra e la Máquina del River Plate anni Quaranta la incarna perfettamente.
A portarla con elementi tratti dal calcio danubiano, che negli anni Venti domina il continente, sarà Imre Hirschl, ebreo ungherese, che impone nel River Plate un gioco corale fatto di dribbling che esalta le qualità del singolo e del collettivo; si inventa il regista (come lo chiamiamo noi oggi) davanti alla difesa a dare i tempi di gioco della manovra offensiva. Muñoz, Moreno, Pedernera, Loustau, Labruna sono i cinque attaccanti che saranno il simbolo della Máquina con le loro finte, i loro dribbling, le loro combinazioni alla ricerca dello spazio giusto.
Fonte: Wikipedia
Questo rapido affresco calcistico fa da sfondo alle vicende politiche, narrate con efficacia da Guez soffermandosi sui momenti topici del legame tra calcio e politica in Argentina, partendo da Juan Domingo Perón, che prova a sfruttarlo come simbolo della grandezza argentina, consolidata dalle vittorie nel 1937, 1941 e 1945 della Selección nelle rispettive edizioni della Copa América. Inizia a finanziare la crescita del settore calcistico e dei club, permettendo la creazione di stadi nuovi e legando alcuni club a istituzioni statali. Per Perón l’Argentina è la nazionale più forte del mondo (vince la Copa América anche nel 1947 e nel 1948) e non deve più partecipare alle competizioni internazionali, rifiutando anche quelle sudamericane: lo splendido isolamento della nazionale argentina è il simbolo della sua indubbia superiorità. Quando i militari salgono al potere, l’Argentina torna a disputare un Mondiale credendosi invincibile, snobbando allenamenti e senza prendersi la briga di conoscere i suoi avversari: al Mondiale svedese l’Argentina viene spazzata via dalla Cecoslovacchia per 6 a 1, in balia di un calcio che li surclassa e li umilia. Per la nuestra è la fine.
Lo shock del Mondiale perso e l’umiliazione subita trasformano il calcio in Argentina: basta con i pibe, dentro ragazzi rocciosi e disposti al sacrificio, capaci di seguire ordini come dei militari. È l’epoca dell’antifútbol fatto di terrorismo psicologico in campo, interventi al limite del codice penale e la difesa strenua della propria porta. Una brutalità in campo che riflette quella dell’Argentina, in preda a cambi di governo continui, incapace di trovare stabilità, succube della violenza che esploderà con il governo della giunta militare nel Mondiale del 1978: il Mondiale dei desaparecidos.
Alla guida della Nazionale viene posto El Flaco Menotti, che aveva riportato in auge la nuestra con l’Huracán vincitore del campionato: azioni corali, dribbling e gioco offensivo che riproporrà anche in nazionale, abbandonando la brutalità dell’antifútbol. Per la giunta militare il Mondiale casalingo è l’occasione per consolidare il proprio potere e la Selección deve esserne l’esecutrice: sarà questo o sarà altro, ma il Mondiale del 1978 sarà ricordato più per le presunte minacce ai giocatori del Perù prima della sfida fondamentale contro l’Argentina (a cui serviva una vittoria con almeno 3 gol di scarto per passare il turno) e per le torture inflitte ai prigionieri politici alla scuola della Marina poco distante dal Monumental. Prima della finale contro l’Olanda Menotti chiede ai suoi giocatori di guardare le tribune, non quelle ufficiali, quelle popolari, dove siede la gente del popolo «rappresentanti dell’unica cosa legittima del Paese: il calcio».
Fonte: storiedicalcio.altervista.org
D10S
L’Argentina ha dato i natali a tre tra i più grandi giocatori della storia: Di Stefano, Maradona e Messi. Se il primo non ha avuto fortuna in patria con la Nazionale, al secondo è legata indissolubilmente la Coppa del Mondo del 1986. Bambino prodigio e precoce, Maradona diventa rapidamente la speranza dell’Argentina, forse soffocato dalla troppa attenzione che gli viene riservata: è il classico pibe del calcio argentino di inizio Novecento, capelli neri scarmigliati, occhi intelligenti, faccia sporca, amore per il dribbling e giocate geniali. Non partecipa ai mondiali del 1978 perché per Menotti è ancora immaturo, quelli del 1982 li chiude con un cartellino rosso contro il Brasile; in Messico, nel 1986, si consacra nella leggenda.
È l’uomo dei miracoli in patria, gli si perdona tutto ma si esige troppo da lui: più partite, più pubblicità, più esibizioni. Diego soffoca e se ne va, prima a Barcellona, dove non si ambienta, poi a Napoli, dove ritrova quell’amore viscerale che sentiva in Argentina. Il Mondiale del 1986 ripropone la sfida tra Argentina e Inghilterra, una storia di confronti che accende la memoria di ricordi legati al calcio e non: nel 1953, in occasione della prima vittoria della nazionale albiceleste contro gli inglesi, Perón proclamò il 14 maggio giorno della vittoria: gli argentini avevano da poco nazionalizzato le ferrovie, prima di proprietà britannica. Il 22 giugno 1986 è il tempo di un’altra rivincita, questa volta più significativa delle ferrovie: l’umiliazione delle Malvine o isole Falkland, britanniche ma rivendicate dall’Argentina.
Guez ha scelto di farsi raccontare (e far raccontare ai lettori) quella partita da Víctor Hugo, telecronista capace di immortalare con le sue parole tutto l’amore per il calcio e il suo potere di trascinare le persone, di sorprenderle, di fargli provare un senso di rivalsa in quella corsa di sessanta metri con la palla sempre in possesso di Diego: nel primo gol di mano di Maradona c’è la furbizia del pibe, nel secondo c’è il genio. Barrilete cosmico, aquilone cosmico «perché imprendibile e perché planava sullo stadio Azteca, ciò che ha fatto era “cosmico”, extraterrestre, galattico. Quel 22 giugno 1986 il geniale Maradona è passato nella sfera del divino», parola di Víctor Hugo.
Fonte: calciomercato.com
Il figlio di D10S
A Maradona si è perdonato tutto, le sue cadute continue, i suoi vizi, i suoi difetti, le sue dichiarazioni. Il suo erede, Messi, è il suo esatto opposto, il simbolo del calcio di oggi, dove al genio non si lega più la sregolatezza: Maradona era il pibe dell’Argentina di inizio Novecento, Messi è il calciatore cyborg moderno. Guez si concentra sugli insuccessi di Messi in nazionale, ma il libro è stato scritto e pubblicato prima delle sue vittorie con la Selección, per cui bisogna approcciarsi a questa parte del libro con cognizione di causa. Non cambia, tuttavia, che «la vita di Maradona racconta il romanzo dell’Argentina degli ultimi sessant’anni, quella di Messi la virtuosità e la vacuità del calcio contemporaneo globalizzato».
Fonte: kickest.it
Olivier Guez crea un’opera che omaggia il calcio, sfruttando il suo legame con l’Argentina per parlare di questo sport a 360 gradi, delle sue conseguenze nel mondo sociale e politico, il tutto condito da uno stile breve e incisivo, capace di catturare l’attenzione del lettore e trascinarlo nel paese sudamericano, vero protagonista del libro.
di Simona Ianuale