Storytelling

Il giorno di Santo Stefano del 1935 non è solo un giovedì di festa da trascorrere

Il giorno di Santo Stefano del 1935 non è solo un giovedì di festa da trascorrere in famiglia, come il Natale volato via da poche ore

Articolo di Nico Morali

Quante volte abbiamo sentito parlare di sport come metafora della vita? Tante…E non a caso, perché nello sport, così come nella vita, sono infinite le storie che vale la pena raccontare.
Alcune, avendole vissute in prima persona, possiamo narrarle arricchendole di spunti, sensazioni ed emozioni. Per renderne interessanti altre, accadute magari molto tempo fa, invece, abbiamo necessariamente bisogno di un supporto alla nostra memoria.

È un po’ come quando, da piccoli, chiedevamo al nonno di parlarci della guerra, oppure quando si domandava al babbo o alla mamma di raccontarci di come si erano conosciuti. Ecco; in quel caso, loro ci facevano partecipi delle emozioni che avevano vissuto ma noi, se oggi dovessimo parlare ai nostri figli di come loro vivessero in una certa epoca, dovremmo per forza salire in soffitta o scendere in cantina; in genere, gli unici due posti che in casa conservano un vecchio baule coperto di polvere ma pieno di ricordi. Lo stesso vale anche quando si vuol provare a far rivivere le emozioni di un evento sportivo al quale avremmo tanto voluto essere presenti ma del quale possiamo dar conto solo rispolverando vecchie foto, libri colmi di statistiche e giornali stampati su una carta ingiallita dallo scorrere del tempo. La storia che vogliamo raccontare, queste caratteristiche, le ha proprio tutte. È una storia che sa di Natale; che perdendosi nelle nebbie del tempo, viaggia ormai lungo il labile confine che separa aneddotica e leggenda. È una delle tante storie che portano con sé l’odore penetrante del cuoio di un vecchio pallone e che riportano alla mente quel calcio pionieristico e romantico, carico d’imprese al limite del fantastico. È una storia di squadre e di uomini ormai quasi dimenticati ma ai quali va il merito di aver acceso il motore di quell’auto di lusso che ancora oggi corre veloce facendo battere il cuore a milioni di appassionati. È una storia nella quale se ne intrecciano altre fatte di trionfi, sconfitte, gol segnati, gol subiti, partenze, ritorni e coincidenze del destino. E’, molto semplicemente, una storia di calcio.

Il giorno di Santo Stefano del 1935 non è solo un giovedì di festa da trascorrere in famiglia, come il Natale volato via da poche ore. Questa è una data importante anche per la giovane ma già ambiziosa Fiorentina messa in piedi, mattone su mattone, da un presidente desideroso di far balzare il nome della sua città agli onori delle cronache sportive nazionali. Il marchese Luigi Ridolfi Vay Da Verrazzano è uno di quegli uomini di sport che hanno lo sguardo perennemente proiettato verso il successo. Ed è proprio questa visione che nel giro di neppure un decennio, gli ha permesso di portare la Fiorentina ai vertici del panorama calcistico nazionale. Dopo aver guadagnato la prima storica promozione in Serie A al termine della stagione 1930/31, l’opera di consolidamento dei viola nella massima divisione è culminata, al termine della stagione 1934/35, nella conquista di quel terzo posto che permetterà alla compagine gigliata di fare il proprio esordio sul palcoscenico europeo partecipando alla Coppa dell’Europa Centrale; una sorta di antenata dell’attuale Champions League alla quale prendono parte formazioni austriache, cecoslovacche (a quell’epoca, le Repubblica Ceca e la Slovacchia erano ancora unite sotto la stessa bandiera), rumene ed ungheresi. In pratica, il meglio del meglio che il calcio europeo esprimeva negli anni Trenta del secolo scorso, eccezion fatta, naturalmente, per i britannici che ritenendosi ancora insuperabili maestri dell’arte pedatoria, mai e poi mai si sarebbero sognati di lasciare l’isola per confrontarsi con realtà ritenute di modesta caratura. Il merito di questo traguardo raggiunto è da dividersi equamente fra il lavoro svolto in sede di mercato da Ridolfi che aveva arricchito la rosa della squadra con elementi di buon livello e la guida tecnica che il presidente viola aveva affidato ad un autentico totem del calcio di quell’epoca. Alla figura di Guido Ara, vercellese purosangue classe 1888, dovremmo dedicare un capitolo a parte. Qui ci basterà ricordare che è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi calciatori italiani di tutti i tempi ed in particolare, agli albori della storia del football nostrano, è descritto come il miglior mediano che abbia mai calcato i campi prima della grande guerra. Vestendo la leggendaria “bianca casacca” della Pro Vercelli, ha vinto sei scudetti da calciatore (fra il 1908 e il 1920) e due da allenatore (nelle stagioni 1920/’21 e 1921/’22) e a lui è stata attribuita una frase che tutt’ora capita di sentir ripetere negli stadi ogni qual volta un calciatore, restando vittima di uno scontro un po’ troppo ruvido con un avversario, rimane a terra facendo magari un po’ di scena: “Il calcio non è uno sport per signorine”. Questo, diceva spesso, “l’elegante Guido”. Una garanzia, insomma, per il presidente Ridolfi che aveva prodotto eccellenti risultati. Riconfermato alla guida tecnica della squadra anche nella stagione 1935/36, Ara non riuscirà, almeno in campionato, a ripetere quanto di buono fatto vedere nella stagione precedente. Pur non rischiando mai di entrare in zona retrocessione, a fine campionato la Fiorentina otterrà un anonimo dodicesimo posto. Miglior occasione di riscatto, dunque, non poteva rappresentare la rinnovata Coppa Italia che la FIGC aveva deciso di riproporre proprio in quella stessa stagione. I massimi dirigenti federali dovettero scervellarsi parecchio per inventare una formula che potesse rendere appetibile una coppa nazionale che in verità non aveva goduto, fino a quel momento, di troppa fortuna. La prima leggendaria edizione datata 1922 venne funestata dallo scisma dei grandi club i quali, in netto contrasto con la FIGC, crearono un organismo alternativo, la CCI, che organizzava un proprio campionato. Ad avere la meglio fu il Vado che al termine di una vera e propria maratona, sconfisse per 1-0 l’Udinese grazie alla rete di uno dei primi mitologici cannonieri del nostro calcio; Virgilio Felice Levratto. Sul campo di Vado Ligure non furono sufficienti novanta minuti di gioco e trenta di tempi supplementari per decretare un vincitore. Non essendo all’epoca previsti né il sorteggio tramite la monetina, né la formula dei calci di rigore tuttora in vigore, come regolamento comandava, bisognava giocare “ad oltranza”; fin quando, cioè, una delle due squadre fosse riuscita a segnare. Nel caso in cui, col sopraggiungere dell’oscurità, nessuno avesse sbloccato il risultato, la gara sarebbe stata ripetuta a campi invertiti. Fu, come detto, un prodigio di Levratto a decidere la sfida. Un gol realizzato in contropiede, con un gran tiro dai venti metri che dopo aver superato il portiere dell’Udinese ed aver sfondato la rete, andò a schiantarsi contro un muro posizionato proprio dietro la porta friulana. Un gol che ben rappresentava la potenza di fuoco dell’attaccante nativo di Carcare che nel 1924, in occasione della gara giocata dalla nazionale italiana ai Giochi Olimpici di Parigi contro Lussemburgo, colpendo sul mento con una potente cannonata il portiere Etienne Baush, lo costrinse ad abbandonare momentaneamente il campo a causa di una ferita alla lingua che il contraccolpo gli aveva procurato e a cui, nel 1959, il Quartetto Cetra dedicherà una citazione nella celebre canzone “Che centrattacco!” Andò molto peggio, invece, nella seconda edizione datata 1926/1927 quando la coppa non giunse neppure alla conclusione, venendo definitivamente cancellata prima della disputa degli ottavi di finale. Come fare, allora, per ricreare interesse attorno alla manifestazione? Semplice; prendere, come di prassi in questi casi, esempio dai migliori; magari da chi, il primo e ad oggi più prestigioso torneo per squadre di club, lo ha inventato e codificato. Ecco, dunque, che nella stagione 1935/1936, la FIGC ripropone la Coppa Italia plasmandone la formula sul modello della FA Cup inglese. Il regolamento prevede innanzitutto due turni eliminatori tra le 64 squadre iscritte alla Serie C, suddivise con gli stessi criteri geografici del campionato. Le sedici sopravvissute accedono ad un terzo turno eliminatorio, a cui partecipano anche i club della Serie B. A questo punto inizia la competizione vera e propria, coi sedicesimi di finale dove si incontrano anche le società di Serie A.

L’intero torneo si basa sul sistema dei replay: i match si disputano sul campo di una delle due avversarie (designato per sorteggio), ma qualora dopo eventuali supplementari nessuno fosse riuscito ad avere la meglio, si sarebbe giocata una gara di ripetizione a campo invertito. La finale è programmata invece in gara secca sul campo neutro dello Stadio Marassi di Genova. Ed è partendo da questa premessa che ritorniamo a quel 26 dicembre di ottantotto anni fa. Sono in molti quelli che in quel giovedì pomeriggio, decidono di arrampicarsi sulle gradinate dello stadio allora intitolato alla memoria di Giovanni Berta, un giovane militante fascista ucciso nel 1921 a seguito degli scontri del Pignone e al quale Ridolfi che in quel periodo, oltre ad essere presidente della Fiorentina, ricopre anche la carica di Segretario Del Fascio cittadino ed il gerarca Giuseppe Della Gherardesca, avevano, in questo modo, voluto rendere omaggio. Anche se l’esordio assoluto della Fiorentina in Coppa Italia non pare essere, almeno sulla carta, troppo impegnativo, l’avversario di turno viene comunque guardato con curiosità, non foss’altro che per l’allenatore che lo guida. Un ragazzo classe 1905 nato a Nizza Monferrato che non solo aveva indossato la maglia viola ma che proprio in virtù dei risultati ottenuti, era rimasto nel cuore dei tifosi. Ala rapida e dotata di buon fiuto del gol, Raffaele Rivolo approda in riva all’Arno nel 1927 e dopo aver realizzato 28 reti in 111 apparizioni ed aver contribuito alla prima storica promozione in serie A, nel 1933 passa alla Lucchese per poi approdare alla Sestrese; storica formazione del quartiere genovese di Sestri Ponente nella quale ricopre l’inedito ruolo (almeno in Italia….) di allenatore-giocatore e che, per l’’appunto, è la squadra che la Fiorentina si ritrova di fronte nei sedicesimi di finale di Coppa. Anche se ormai, dai più, dimenticata, la figura di Rivolo è fra le più importanti nei primi anni di storia viola. Il ragazzo di Piemonte è stato uno di quelli che ancor prima di essere promossi in massima divisione, ha vissuto in prima persona sia il trasferimento della squadra dal “Velodromo Libertas” (meglio conosciuto da tutti i tifosi come “Campo di Via Bellini”) al nuovo stadio Berta, sia l’istituzione, al termine della stagione 1929/1930, del “Girone Unico” e della conseguente creazione di quella piramide che al netto di modifiche e ritocchi operati in epoche successive, rappresenta ancora oggi uno dei pilastri su cui poggiano le fondamenta del calcio italiano.  Per la compagine verde stellata, che pur militando in Serie C è riuscita a guadagnare un posto nel tabellone principale, questa è la prima trasferta fuori dai confini regionali. Nei tre turni precedenti, infatti, ha avuto la meglio su altrettante formazioni liguri, superando Rivarolese prima e Andrea Doria poi (entrambe con il punteggio di 2 – 1) per poi aprirsi a viva forza la strada verso Firenze infliggendo alla Ventimigliese un secco 3 – 0. Quando le due squadre scendono sul tappeto erboso del Berta, basta poco per comprendere come stavolta, per i ragazzi di Rivolo, l’ostacolo sia ben più arduo da superare. E questo nonostante Ara, un po’ come accade anche oggi, schieri diverse seconde linee. Un rischio calcolato, vista la forza dell’avversario, considerando il fatto che all’epoca non era possibile effettuare sostituzioni. Fra i pali, ad esempio, al posto di Ugo Amoretti (futuro primo scopritore di un “certo” Eusebio), c’è l’empolese Gino Baggiani. Fra i titolari non c’è il forte difensore di origine triestina Lorenzo Gazzari e neppure il centrocampista uruguaiano Carlos Gringa. Viene tenuto precauzionalmente a riposo anche Cinzio Scagliotti; buon attaccante, piemontese d’origine ma fiorentino d’adozione, che dopo aver militato anche nella Juventus, tornerà a Firenze in veste di allenatore e talent scout e proprio in riva all’Arno morirà il 26 dicembre 1985; ironia della sorte, a cinquant’anni esatti dall’esordio viola in Coppa Italia. Sono altri i protagonisti che trascinano la squadra alla vittoria. Com’era prevedibile, la gara non ha storia e la Fiorentina s’impone 8-0. Un risultato eloquente e che rappresenta un record tuttora imbattuto. Resta infatti questa, al momento, la vittoria più larga ottenuta dalla viola nella manifestazione. Andranno in gol Mario Mannelli, autore di una doppietta e Italo Romangoli; soprannominato, in virtù delle grandi doti atletiche, “Testina d’oro” e “uomo di gomma”, autore di una tripletta ma un altro grande protagonista della partita, anche lui a segno per tre volte, è un attaccante ungherese la cui storia personale ben si adatterebbe a trasformarsi nella trama di un romanzo d’appendice ambientato dietro la fumosa cortina di Ferro. Janos Nehadoma nasce a Budapest nel 1901 ma di lui sappiamo poco o nulla fino a quando, nel 1925, viene ingaggiato dalla Pistoiese. A dire il vero, qualcosa circa le sue origini, si è poi scoperta più tardi. Il padre Frantisek era probabilmente stato abbandonato dalla madre al momento della nascita. Il suo cognome, infatti, deriva da un termine in lingua ceca che letteralmente significa: “Non torna a casa”. Un po’ come quando, tanto per fare un esempio, fino a qualche secolo fa, in Italia, ai bambini abbandonati veniva dato il cognome Degli Esposti proprio perché lasciati all’interno delle omonime ruote. Il figlio Janos, dopo aver iniziato in patria la carriera di calciatore, come detto approda a Pistoia ma già nel 1927 è costretto a lasciare la città toscana a causa dell’embargo imposto, ai calciatori stranieri, dal regime fascista. In quel periodo non era inusuale, da parte dei club italiani, avvalersi delle prestazioni di calciatori e allenatori provenienti dai Balcani e dai paesi bagnati dal Danubio; un po’ come accade oggi per i giocatori sudamericani. A cavallo fra gli anni ’20 e’30, infatti, la cosiddetta “scuola danubiana” andava per la maggiore e proprio la Fiorentina, tanto per restare in tema, si era affidata, in occasione del suo primo approdo nel massimo campionato italiano, alla guida del celebre tecnico austriaco Herman Felsner; lo stesso che fra il 1920 e il 1931, aveva forgiato quel Bologna che faceva tremare il mondo. Costretto a lasciare l’Italia, Nehadoma si trasferisce in Austria, dove si accasa agli Hakoah di Vienna; il club che nella capitale rappresenta la comunità ebraica. Qui stringe amicizia con Heinrich Schönfeld, un attaccante divenuto successivamente allenatore che tra l’altro, nel suo peregrinare, era passato anche per Firenze militando, nella stagione 1922/23, nelle file della Libertas. Una delle due società che poi avrebbe dato origine, assieme al Club Sportivo, proprio alla Fiorentina. Fu Schönfeld, che nel ’26 aveva disputato una tournée negli Stati Uniti con gli Hakoha allo scopo di raccogliere fondi per la causa sionista, a suggerire a Nehadoma di percorrere la stessa strada. I due tornano in America, dove il proprietario dei Brooklyn Wanderers Nathan Agar, impressionato dalla grande abilità tecnica messa in mostra dagli austriaci durante un’amichevole di esibizione, prova a convincere alcuni di loro a rimanere negli Stati Uniti. Nehadoma accetta, giocando così alcune stagioni prima con i Wanderers e poi con i Brooklyn Hakoah e realizzando, fra il 1927 e il 1929, la bellezza di 80 gol. La crisi economica che proprio in quello stesso anno colpisce anche il mondo del calcio statunitense lo costringe a rientrare in Europa ed a fare poi ritorno, nel 1930, a Pistoia dove, grazie ai buoni uffici di un gerarca locale, riesce ad ottenere residenza e passaporto italiano; circostanza che però lo obbliga, in ossequio al regime, ad “italianizzare” anche il proprio nome che viene così trasformato in Giovanni Necadoma. Dopo aver giocato una stagione nel Livorno, nel ’33 approda in maglia viola. Dodici gol in 53 partite non gli permettono di lasciare una traccia indelebile sotto la Torre di Maratona. In quell’edizione della Coppa Italia, però, le cose vanno diversamente. Dopo la tripletta rifilata alla Sestrese, Nehadoma va in gol anche nella gara degli ottavi vinta dalla Fiorentina sul Genova 1893 per 3 – 0. Nei quarti la squadra di Ara espugna il terreno degli odiati rivali della Juventus infliggendo ai bianconeri un netto e convincente 3 – 1, con Scagliotti, Perazzolo e Comini che ribaltano l’iniziale vantaggio bianconero firmato Varglien II. Parlare di finale non è più un tabù finché, all’improvviso, tutto cambia il 31 maggio 1936 quando un Torino che pur essendo già una buona squadra, era ancora ben lungi dal diventare “Grande”, grazie ai gol di Prato e Silano, spazza via i sogni di gloria dei ragazzi di Ara conquistando la finale che poi si sarebbe aggiudicato il successivo 11 giugno annientando l’Alessandria sul prato di Marassi grazie alla cinquina griffata Silano, Galli (entrambi autori di una doppietta) e Buscaglia. E Nehadoma?? Beh…Così com’era apparso nel 1925 a Pistoia, dopo essere rientrato in possesso, al termine della Seconda guerra mondiale, del proprio nome originale, allo stesso modo scomparve nel 1973 quando il comune di Bergamo, suo ultimo domicilio italiano, a causa della perdurante irreperibilità, lo cancellò definitivamente dalle liste di residenza facendoci così presupporre che sia deceduto al di fuori del territorio nazionale. All’Atalanta aveva ricoperto con buoni risultati, nell’immediato secondo dopoguerra, sia il ruolo di allenatore, sia quello di direttore sportivo per poi terminare definitivamente la carriera a L’Aquila nel 1958. 

Si sarebbero invece incrociati nuovamente, a distanza di qualche anno da quel 26 dicembre 1935 e sempre nella medesima competizione (la Coppa Italia) i destini sportivi di Fiorentina e Sestrese. Nell’edizione 1939/’40 che si concluse con il trionfo viola sul Genova 1893, battuto grazie alla rete realizzata da Mario Celoria al 26’ del primo tempo della finale giocata sul terreno amico del “Berta” che permise al marchese Ridolfi di mettere in bacheca il primo trofeo nella storia della Fiorentina, un’incredibile coincidenza mise nuovamente di fronte, ai sedicesimi di finale, gigliati e verde stellati che nel frattempo il regime fascista aveva costretto a cambiare denominazione sociale in “Manlio Cavagnaro Genova”, al fine di onorare la memoria del fondatore del fascio autonomo di Sestri Ponente assassinato nella notte tra il 22 e il 23 maggio 1921. Un obbligo, certo, ma in fondo anche una gran bella mossa strategica, visto che così facendo, la squadra riuscì ad evitare di rientrare in quel progetto che aveva già costretto altre due società genovesi, la Corniglianese e la Rivarolese, a fondersi con la Ginnastica Sampierdarenese per dare vita al Liguria. Dopo aver superato il lungo tunnel delle qualificazioni battendo il Tigullia per 6-0, l’Acqui per 3-2, l’Entella (in trasferta sul campo di Chiavari) per 2-1 e – sempre col medesimo punteggio – la Saremese, la Vigilia di Natale del 1939, sul terreno del Campo di Marte, i viola impartiscono ai liguri un’altra severa lezione, andando vicini a battere il record conquistato quattro anni prima sconfiggendo i ragazzi di Rivolo. Il poker di Penzo e il tris di Antona, permettono alla squadra di Beppe Galluzzi di calare il settebello su quella di Ercole Carzino. Stavolta, però, anche i genovesi riescono a lasciar traccia del proprio passaggio a Firenze, violando la porta difesa da uno dei primi grandi numeri uno gigliati, Gigi Griffanti, grazie al gol realizzato al 39’ da Luigi Pantani; attaccante classe 1908, pisano di origine (era nato infatti nel comune di Terriciola) ma che alla Liguria ha legato tutta la sua carriera sportiva e che proprio Carzino, nel 1937, volle fortemente in maglia verde prelevandolo dalla Sanremese.